Cecilia


di Paolo Andreozzi

Finalmente era fuori. E quanto l’aveva aspettato, quel momento!
In effetti Cecilia aveva teso ogni muscolo e affinato tutti e cinque i sensi proprio con l’obiettivo di uscirne. E bene. Trent’anni di vita. Studi discreti e lavoro mediamente gradevole. I primi amori finiti senza chissà che traumi, un tetto comodo e la famiglia presente. L’opposizione vigile e scettica alla banalità imperante, gli amici antichi a portata d’orecchio e un compagno, da un bel po’, tenero e appassionato.
Ma da cosa, era fuori? Da quella stanza, sì, piena di luce e di camici. E però anche, una buona volta, dall’infanzia. Dalla stagione, cioè, in cui non ti viene permesso di decidere davvero. Se non nei dettagli superficiali, del tipo: votare centrodestra o centrosinistra.
Ora però Cecilia, al termine di un interminabile copione scritto per lei da non si sa chi, sul proprio futuro si era affacciata sul serio. E quello, il futuro, lo voleva libero. Poiché, al succo della questione, tutte le speranze le aveva riposte in sé stessa in quanto essere in continuo progresso. Un’evoluzione che la trasformava senza posa, e anche parecchio: una specie di continua reincarnazione.
“Va tutto bene”, si disse Cecilia. Eppure… eppure c’era quell’ansia, sì, quell’arsura acidula in cima al palato. Anzi, non era il caso di prendersi in giro: Cecilia in quel momento aveva paura, e con la chiarezza di un teorema matematico. Il fatto è che lei, adesso, riassumeva in sé parecchie aspettative. Quelle proprie, direttamente proporzionali alle esperienze fatte e al lavoro svolto per capirci qualcosa, e quelle della gente fiduciosa nei suoi confronti. E proporzionali anche a quel tanto d’invidia con cui la guardava chi l’affetto glielo simulava soltanto. Ma Cecilia aveva messo in conto pure quello: la tenace, e in sostanza innocua, insicurezza delle persone troppo semplici.
Però un conto è immaginarselo, cosa si farà il giorno che ci si scopre adulti (ed è perciò che si mandano a memoria pagine intere del tempo altrui: tempo fatto di cellule, e di celluloide, di carta e inchiostro, di tela e colori, di pentagrammi…), e un altro è vedersela davanti, a un passo, la nuova realtà: l’ulteriore mutazione, la fune sospesa sull’oceano delle possibilità, il tuffo a piacere – ora che le figure obbligatorie sono già storia. E diavolo, che vertigine!
Così accadde, che la nitida visione dell’inesorabile responsabilità trapassò tutte le difese di Cecilia. E arrivò fino al centro esatto del suo cuore.
“Cecilia, guarda chi è arrivato”, le parve a malapena di sentire accanto a sé. Ma Cecilia non vedeva: non con i soliti occhi, almeno, e né oggetti né persone, e di sicuro non là intorno. Piuttosto, in un’atmosfera irreale stava in qualche modo svelando, sgomenta, direttamente le idee delle cose, i loro nomi e i loro rapporti eterni. Sì: reminiscenze platoniche più panico allo stato puro.
Come te lo descrivo? Diciamo… una galassia di dischi enormi, affilati, neri, gelidi, immersi in una notte indurita da bagliori di madreperla… uno ti sfiora ed è già lontano anni-luce, e tutto gira vorticosamente senza il minimo rumore…
“Ma è così la… verità?” si chiese a quel punto Cecilia “…È questo che sta fuori dal recinto comodo dei pregiudizi, dei condizionamenti? È in un nulla così che prima di me si sono spinti gli uomini sensibili, le donne emancipate? Vedono questo, i grandi, e papà e mamma?… E anche Tommaso, l’ha capito, povero amore?”
Sì, Cecilia. Sì a tutte le domande, anche se ognuno se la raffigura un po’ diversa, la scena: dipende dalla lingua, sai, dal clima, dall’età, perfino dalla dieta.
Sì, anche Tommaso.
Ma ecco che il caotico silenzio e l’oscurità baluginante, che avevano invaso il suo animo, furono spezzati da una cosa viva, benché impalpabile come una piuma: una piumetta calda, colorata, quasi pigolante. Cecilia, non so neanch’io perché proprio allora, ricordò con vividezza quei batuffolini da nulla usciti da piccole uova, nella vecchia gabbia di casa. Risentì tra le dita le stesse carezze, sul volto quello stesso sorriso, e ancora il canto armonioso e libero di altri ingranaggi in DNA, beccuccio arancio e livrea celeste. Cedette, accettò subito il suggerimento della propria memoria e “Ma certo!” pensò, “Anche questo è verità: dipende solo dal verso in cui si guarda!” E respirando profondamente riabbracciò il proprio essere, per intero.
“Ancora non ci credo”, diceva ora Tommaso, e la strinse a sé con dolcezza. Lei lo guardò negli occhi, riflessi sul cristallo. Le sembrò bello, Tommaso, e forte, ma adesso sapeva quanto dovesse essere anche lui spaesato da quella gran novità. Sentì la voce di suo padre in corridoio, dietro di sé sua madre e altre donne, e infine afferrò qualcosa che ancora le sfuggiva. E vide la propria bocca, e quella di Tommaso e le mani del padre di lui schiacciate con gioia sul vetro, e i loro fratelli innamorati, e gli amici e tutti gli altri, compresi quegli uccellini, come in una specie di anello, un anello enorme che occupava il cielo di Roma, l’orizzonte del Mediterraneo, l’intero Sistema Solare. Un’immensa ghirlanda, che si rimescolava continuamente in migliaia di colori diversi, che ruotava e sbuffava e s’ingigantiva sempre più, che dava un senso al tempo, alla vita, alla morte, alla forma delle nuvole, e che era il ritmo e lo spazio e l’energia… Che era l’altra faccia di quei brutti dischi freddi e neri, e anzi li inglobava tutti, rendendoli innocui come vecchi 33 giri.
Cecilia, ora, affacciata sul punto più alto di quell’anello straordinario, tendendo ogni muscolo riuscì a fermarlo per un solo istante e guardò giù, verso il punto più basso. Vide due piccole corolle galleggiare su tutte le altre: due minuscoli esseri umani: nuovi di zecca! Parevano identici, e invece non potevano essere più diversi, più unici: una femmina e un maschio.
Avresti giurato che stessero osservandola a loro volta, dal fondo della ghirlanda, dalle piccole culle appaiate dietro quel vetro di nursery. Che studiassero il volto di chi li aveva custoditi e sognati, interrogati e nutriti in quei mesi. E che le augurassero – sì, proprio a lei – buona fortuna.
“Ho i nomi! Ascolta… Nilo e Nurmi!” le sussurrò Tommaso sulle labbra, “Che dici? …Nilo, Nurmi, e non ci pensiamo più!”
“Pensiamoci, invece, amore mio…” rispose Cecilia, felice tra le sue braccia “…C’è tutto il tempo!”
La ghirlanda ricominciò a girare.

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