“Vi saluto! Maria, cazzo, Dio!” Colette Peignot, la pestifera, la scrittrice negativa


di Franco Malanima

Se ho sofferto, è per malattia.
Un essere sano non può soffrire.

Morì a trentacinque anni, a causa della turbercolosi, come Simone Weil, Emily Brontë, John Keats e tanti altri. Colette Peignot ci ha lasciato una serie di opere tormentate, segnate da un peccato mortale, da un’infanzia che “ruba i bambini”. Ciò che ha scritto va al di là di qualunque letteratura. Faceva parte degli scrittori “negativi”, come Rimbaud, come Artaud, quelli che non piacciono al canone, perché non sono incanalabili, quelli che non fanno distinzione se davanti al foglio ci sarà il papa o l’ultmo degli sguatteri. Era soprannominata Laure. Scrisse poesie, saggi, romanzi, tutto uscito postumo. Da viva, non ha mai voluto pubblicare nulla, non ha cercato alcun riconoscimento letterario: à quoi bon! Negli anni ‘70 suo nipote Jérôme Peignot fece pubblicare l’opera completa della “madre diagonale”, come la chiamava lui. Rifiutato da Gallimard, il manoscritto finì nelle mani dell’editore Pauvert: il successo fu immediato. Le ristampe si sono susseguite numerose negli anni successivi.

A Parigi esiste la Rue des Quatre Frères Peignot in ricordo di suo padre e i tre zii, tutti morti sotto le armi. Ma una strada non basterà per ridare a Colette la pace eterna. Deve dannarsi là sotto, più di quello che noi possiamo umanamente immaginare. Perché certi spiriti non vengono al mondo per stare bene, per gioire, ma per dare, dare se stessi, e poi sparire. “A otto anni già non mi sentivo un essere umano”, scrisse. Si sentiva schiacciata dalle norme borghesi, dal patriarcato, dalla figura imponente dell’uomo, e lei si chiedeva come abbatterla, come metterne in risalto l’impotenza. “Eviterò ogni contatto con qualsiasi essere vivente nel quale non sentirò alcuna risonanza possibile con ciò che mi tocca nel profondo, e verso il quale avrò delle obbligazioni di gentilezza e di cortesia”, diceva così. Soffriva per la povertà, soffriva per le gerarchie, per gli ombrelli di seta e le pezze al culo dei mendicanti di fronte al bel cancello d’oro e di ottone della sua famiglia. Perché sentire il male vuol dire sentirlo su di sé, provare il dolore degli ammalati, il rimorso degli afflitti, la nostalgia degli emarginati. Vuol dire questo essere un artista? Doveva chiederselo tutte le sere, al posto delle preghiere, doveva contorcersi al pensiero che avrebbe potuto vivere anziché scrivere. E invece, come tutti gli altri che dormono adesso insieme a lei nelle pagine eterne dell’aldilà, anche Colette era destinata a testimoniare, a rendere mortale l’eternità e immortale la vicenda umana. Come quando scrisse della figlia della cameriera, Christiane – quale nome più azzeccato – che venne sorpresa a rubare carbone e per la vergogna si gettò dalla finestra. Ma non fu questo a ferire Colette: furono le parole di sua madre, “cambiamo cameriera, tutto qui!” Fu questo il momento in cui comprese che l’umanità era fottuta? Lo possiamo solo supporre. Da ciò che ha scritto, sembra di sì. Leggete la storia del parroco che tentò di violentare lei e sua sorella, Madeleine, ne l’Histoire d’une petite fille, e capirete meglio di cosa sto parlando: “[Il parroco] aveva l’abitudine di attirare mia sorella in un angolo e premerle il petto dicendole che doveva trovare la pace, e le toccava il sedere tirandole su la gonna tra le natiche e poi rimettendogliela a posto”.

L’educazione cattolica borghese è diseducazione, insopportabile, è il male da cui liberarsi. Lesse Rimbaud, D’Annunzio, Nietzche, Sade, diventò l’amante di Jean Bernier, amico di Drieu La Rochelle, scrisse sulla rivista Clarté. La sua malattia intanto la perseguitava. Bernier la lasciò. Nel 1927 tentò di uccidersi, si sparò con un revolver, la ritrovarono in un lago di sangue, viva per miracolo. Non era ancora il momento. Incontrò Simone Weil, con la quale intessé una forte amicizia. Ebbe altri amanti, iniziò a usare gli pseudonimi che la nascosero ai peccati del mondo. Perché è a questo che servono gli pseudonimi: a essere dimenticati, a sparire. Eppure, anche senza un nome, Colette Peignot si guadagnò fama di ribelle, tradusse articoli dal russo, aderì a circoli comunisti, contribuì alla grande rivolta intellettuale del ‘27, iniziò a bere e ad assumere droghe insieme al suo nuovo compagno, il poeta Edouard Trautner, che la obbligava a portare un collare e la picchiava come una cagna randagia. Soffrire per lei voleva dire espiare il male sociale.
Negli ultimi anni della sua breve vita, partecipò al progetto della rivista Acéphale, diretta dallo scrittore Georges Bataille. Fu lui a soprannominarla Laure. Bataille scrisse di lei, la amò forse nell’unico modo possibile: lasciandola andare. E accanto al suo letto di morte iniziò a mettere insieme i primi appunti per Il colpevole, il romanzo che ha raccontato meglio l’esistenza bruciante di questa donna, la storia di come per lui – ma forse per qualunque uomo – sarebbe stato impossibile renderla felice.

2 pensieri riguardo ““Vi saluto! Maria, cazzo, Dio!” Colette Peignot, la pestifera, la scrittrice negativa

  1. Una ventata d’aria fresca, stavo per dire. Ma no, molto di piu,’ una tempesta una burrasca. Necessaria, benvenuta. Articolo meraviglioso.

    1. Grazie Manu. In un mondo in cui sono tutti educatissimi perché obbediscono a un algoritmo, ogni tanto è bello leggere un sano vecchio “cazzo” da qualche parte.
      Saluti da Annecy,
      f.

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