“Pompe” funebri

di Manu Bazzano

Di Dioniso – dio dell’estasi, del teatro, e della follia, ridotto dai Romani a bietolone avvinazzato – conosciamo soltanto raffigurazioni acerbe: caotiche, informi, arrese alla disgregazione dell’identità e una caccia maldestra all’unione mistica. Per Nietzsche esiste tuttavia una fase dionisiaca matura; avendo assimilato le qualità apollinee, Dioniso si è raffinato, spiritualizzato, persino “sublimato”. Un esemplare controverso fu Goethe, che a 72 anni s’innamorò platonicamente della diciassettenne Ulrike von Levetzow. Oggi verrebbe esposto a festoso linciaggio, costretto a ingollare psicofarmaci, o equiparato forse a caproni come Trump o Berlusconi, ma a differenza dei divi della pattumiera storica, Goethe a 72 anni era ancora capace di innamorarsi. Ulrike apprezzò le attenzioni del poeta come quelle di un avo premuroso e fonte di conoscenza e sensibilità artistica. L’amicizia fra i due creò scandalo e pettegolezzi, ma dal suo amore non corrisposto emersero non fantasticherie allupate ma i versi limpidi della Trilogia della Passione e dell’Elegia di Marienbad (“Sgorgate dunque, lagrime, scorrete senza ritegno!”) così come l’ispirazione, due secoli dopo, per il romanzo di Thomas Mann Morte a Venezia.
Redenta dagli svolazzi del Romanticismo e le diffide della religione, la sublimazione diventa un’arte affine al giardinaggio: coltivare i germogli di rabbia, pietà, e desiderio come si coltiva un albero da frutto. Oppure lasciare che la natura regni indisturbata, limitandosi a riordinare qua e là. Avvedersi soprattutto che il metodo a cui siamo propensi è frutto di libera scelta e non d’imposizione psicologica o religiosa.

Nel tentativo di distogliere i fedeli dalle umili gioie terrene, nel dodicesimo secolo Oddone di Cluny dichiarò che abbracciare una donna equivale a abbracciare un sacco di letame – frase spregevole per chiunque abbia mai amato una persona di qualunque sesso. Eppure nessuno prima di Jean Genet ha saputo rispondere adeguatamente al monaco cristiano. In Pompes funèbres, romanzo dal titolo a doppio senso ambientato durante la liberazione di Parigi nel 1945, Genet descrive l’anima come armonico dispiegarsi d’alghe e onde, di organi che vivono una vita ricca e strana negli oscuri abissi; fegato, milza, la patina verde dello stomaco, e poi il sangue, gli umori, gli intestini ceruli. Il corpo dell’amante senza vita simile a un’ampolla veneziana, prima della trasformazione in gomitolo di luce e infine remoto fulgore.
Genet usa la medesima descrizione particolareggiata delle viscere umane usata da scrittori religiosi come Oddone, ma nel suo testo avviene un’altra sorta di transustaziazione, la trasformazione degli organi e le viscere della persona amata non in puro spirito ma in linguaggio sublime. Non più ascensione al regno celeste, al limbo dell’impertubabilità neo-stoica, o al gaudio neoliberista dei terapeutizzati, fieri d’aver a quanto pare sconfitto le passioni, ma ingresso senza fanfara nel regno dell’arte, della cultura, dell’auto-creazione.
Non si ama nulla se in un altro non si ama tutto, visto che l’amore viscerale salva e protegge l’umanità intera in un singolo individuo. Questa forma di amore è conoscenza – l’unica forma possibile di fronte ad un altro essere umano proprio perchè l’umano non può essere rappresentato. Non “ama il prossimo tuo” ecc., ma l’anima stessa sequestrata da mutamenti oscuri e il mistero che sfugge alla scala Kinsey, alle benedizioni dei prelati e all’algebra dei libertini.

Commenta