di Manu Bazzano
Com’è aleatoria la vita nel volo turbolento verso São Paulo in una notte di luna nera a tremila metri da madre terra, terra matrigna. Under the Skin nella selezione intrattenimento, la storia d’una alien allettante che s’aggira in un furgone per le strade piovose di Glasgow a caccia di uomini da scopare e divorare. A metà film m’appisolo nel cuore siderale dell’infinito; soave il naufragar e non sogno demoni o vampiri ma l’ex-angelo Bruno Ganz in Così lontano, così vicino. Disavvezzo all’umana dimensione, si scotta le labbra bevendo un caffé pessimo da un chiosco in una strada freddolosa del centro. Mi sveglio con le lacrime agli occhi, sconfitto dalla magnifica fragilità e inautenticità d’essere umano, un regno in cui anche un caffé scadente è divina ambrosia. Condizione auspicabile quella umana, l’aveva detto il Buddha, non perché siamo signori della creazione e della catena alimentare o altre minchiate del genere ma nel senso di eccoti qui caro mio e già che ci sei tanto vale aprire corpo e mente ai diecimila fenomeni e fare qualcosa di decente prima di ritornartene fra le stelle smorzate.
Insonne e con la barba di due giorni a São Paulo in una lunga fila vicino a una porta d’imbarco per Buenos Aires adocchio lo spettro di Roberto Bolaño. Riconosco il meridione, lo stesso bettolìo napoletano o calabrese ma anche di Chicago che non è meridione ma al sud apparteneva certo il quartiere dove capitai per sbaglio una notte d’estate, al meridione dell’anima. E se la psicologia odierna viaggiasse in direzione sud assorbirebbe forse ironia, volo poetico, resistenza al clangore positivista e presbiteriano che la caratterizza. La psiche si rivelerebbe molteplice: politeismo di pulsioni e affetti invece che monoteismo della coscienza. A che serve pronuciarsi laici se poi si cede alla bacchettoneria d’una morale borghesuola.
Cosa ci vado a fare a Lima, mi chiedo adesso sonnolento e stanco, invitato a insegnare un weekend sulla terapia esistenziale e lo Zen, e se mi si addice dover esporre un grappolo d’idee e pratiche inscatolate in Germania e in Francia e finanche quello strano prodotto indiano/cinese/giapponese/coreano e ora distintamente nordamericano, moralisticamente teso alla salvezza personale una volta finita la contabilità.
Per placare il senso di colpa da colonizzatore leggo furiosamente Cesar Vallejo, grande poeta peruviano emigrato a Parigi, e ovviamente Neruda e Machado e altra roba in spagnolo lontana dalle coordinate mitteleuropee. Poi un ricordo vivo incongruo, il corpo di mio padre all’obitorio, il naso più sottile, il viso disseccato da uccello che non seppe trattenere la vita nel becco. Cosa succede quando moriamo? A un funerale, un praticante Zen bussa sulla bara e chiede al maestro vivo o morto? Non te lo dico, risponde il maestro finché molti anni dopo e con una buona dose di proverbiali batoste zen lo studente si risveglia al mistero del vivere-e-morire.
Stupefatto dopo diciassette ore di volo, è mezzogiorno quando incontro Roberto e Jessy. Entriamo in un taxi ed è come ritornare in India o in Calabria, la guida arrembata come se tanto ci sono concesse reincarnazioni a non finire e chi se ne frega se rendi l’anima in un incidente stradale in una strada d’agosto.
In una taverna di pescatori piena di gente del posto apro la mente al cibo peruviano, delizia multicolore, assalto ai sensi, piaceri ignoti. Saltiamo su un altro taxi e mi sembra di conoscere Roberto da una vita mentre parliamo con fervore d’ogni cosa ed è un buon segno goderci la conversazione nonostante l’insanabile disaccordo su Herr Heidegger, viscido difensore della razza ariana sotto il manto mimetico di un Dasein pre-socratico, arcadico bastione di difesa contro il collettivismo sovietico e i MacDonalds ai cancelli d’una grande civiltà i cui emblemi sono cattiva digestione, birra tiepida, il passo dell’oca, e i campi di concentramento visti come esperimento di tecnologia agricola. Nel frattempo mentre sfrecciamo a rotta di collo nel taxi con musica messicana a tutto volume osservo i quartieri di Lima dalla povertà estrema al lusso disgustoso.
Con il lungomare alla mia destra, pensieri urgenti m’invadono: è davvero così abissale la mia ignoranza da non essermi reso conto che agosto in Perù è inverno? E perché Anti-Edipo è rimosso dalla psicoterapia contemporanea? Credono davvero che tutto si spieghi con il teatrino di mamma-e-papà?
Riesco a malapena a stare in piedi e dio sa cosa dirò domani al workshop. Solo nella stanzetta d’albergo nel cuore del Barranco, il quartiere di Lima che gli abitanti si sforzano di descrivere come bohémien, assaporo la solitudine del viaggiatore zen esistenziale mentre lavo un paio di calzini neri e le mutande blu scuro comprate a Gap nella triste luce del neon del bagno minuscolo. Una visita breve nella palestra-scantinato dietro l’angolo la mattina presto mi tira su. M’alleno negli inferi, dove gli uomini non sono ammessi sul tapis roulant ma hanno accesso solo ai pesi. Amy Winehouse fa no, no, no dagli altoparlanti; I don’t want to go to rehab. Il sottosuolo da dove scombicchero queste note è pieno di centri di riabilitazione ma non c’è niente da fare, no, no, no.
Mi piacciono gli autobus colorati e sovraffollati destinazione Chorillos che giostrano per la città e dopo una scarpinata arrivo a Miraflores, un quartiere di nouveaux riches con grattacieli, turisti e deltaplani nel grigio perenne del cielo di Lima.
Durante il seminario parlo del nesso fra la nozione arbitraria del sé, l’identità e il territorialismo e l’odio per lo straniero. Dò l’esempio dell’infanzia di Ariel Sharon a Kfar Malal, un villaggio-cooperativa a dieci miglia da Tel Aviv. L’appezzamento di terra della sua famiglia era inizialmente uguale a quello degli altri ma delimitato da recinzioni e protetto da cani da guardia. Di tanto in tanto la famiglia estendeva il terreno e presto divenne il più grande nel villaggio. Al tempo stesso la famiglia divenne l’unica nel villaggio senza amici. Anni dopo, Sharon diventò uno dei capi dei territori occupati dallo stato israeliano. Lo stesso vale per il sé, e per nozioni di possesso e espansione. Dal sé allo stato-nazione all’impero.
Consumo Bio-Pycnogenol, indicato per la disritmia ma non ne sono convinto, e nella sbiadita luce invernale cerco rifugio dapprima in una chiesa vuota e poi in un minuscolo tapas bar con una soap lacrimosa a tutto volume sullo schermo gigantesco.
Quella notte cammino in sogno per un’antica strada con Subhaga. Mi racconta del suo incontro con un vecchio filosofo. Indossava un cappottone grigio? Aveva i capelli lunghi e grigi? Assomigliava ad Artaud? Non risponde. Camminiamo a braccetto, un po’ a disagio perché non sappiamo se gli fa strano da queste parti vedere uomini camminare così. Poi l’antica strada diventa la nostra cittadina di ventenni.
La hall dell’albergo è piena di giovani gringos svaccati su divani, monadi incollate a dispositivi elettronici – turisti dell’ayahuasca di ritorno dallo sciamanesimo della domenica.
Il cielo grigio mi rassicura: non accadrà nulla a sconvolgere la marcia verso l’oblio. Una partecipante al seminario si confida. Gli anni Settanta sono finiti da un pezzo, sai? Rivoluzione, idealismo, eguaglianza, pane e lavoro per tutti. E poi, dio ce ne liberi, il Sendero Luminoso. Ho vissuto da entrambi i lati delle barricate e sono stanca. Mi piace Miraflores, dove abito, le strade sono pulite e la polizia mantiene l’ordine, non come quei quartieri dove non puoi berti un caffé decente. Ascoltarla mi deprime, taglio corto e uscendo in strada ascolto il calar della sera e capisco l’inverno. Un’isoletta al tramonto dalla costa, un’enorme croce luminosa benedice il traffico ruggente. Un cartello segnala l’area di evacuazione in caso di tsunami e un altro all’ingresso di un parco troppo ben curato indica un rifugio in caso di terremoto. Provo a scrollarmi di dosso la tristezza con una visita a un centro commerciale – oasi di luce artificiale nel buio che avanza. In una vetrina una vecchia coppia di un clan montanaro intreccia capi di vestiario multicolori sotto la luce abbagliante e lo sguardo voyeuristico di turisti come me. Quella mattina avevo visto una gruppo di ragazzi correre dietro a una bandiera urlando slogans. Tifosi? No, reclute dell’esercito. Mi viene in mente Adorno, il vecchio scorbutico della filosofia musicale: com’è mai possibile la bella vita, o la vita giusta, in un oceano di bruttezza e ingiustizia? Una psicologa che lavora in una prigione prende la parola verso la fine del seminario. Non c’è alcun barlume di speranza, dice. Come puoi dare qualcosa di buono in un ambiente punitivo, o illuderti che non verrà recepito come il contentino beffardo elargito da un’istituzione crudele?
Quella sera con Roberto e Jessy in un caffè arabo, Roberto mi fa sentire una registrazione della poesia di Vallejo Gli araldi neri letta da Ernesto Guevara.
Ci sono colpi nella vita, così forti … io non so!
Colpi come dell’odio di Dio; come se di fronte ad essi
la risacca di tutto il sofferto
ristagnasse nell’anima … Io non so!
Due amici la mattina dopo mi portano in centro, la banda in elmi dorati e uniformi rosse suona l’inno nazionale e Carmina Burana. Nei fumi del traffico e nel grigio del cielo mi s’accende in cuore un’allegria da naufrago e quel senso d’appartenenza che nasce dal sapere che non appertieni in alcun dove. Com’è aleatoria da qui l’Europa, una volta centro del mondo.