Sylvia Plath: Un’esistenza concepita come corpo letterario

di Marisa Paladino

Non era insolito nel 1953 che gli psichiatri statunitensi consigliassero l’elettroshock per curare gravi episodi di depressione, né tantomeno sentire alla radio della condanna a morte di persone coinvolte in fatti di spionaggio. Sylvia Plath in quella calda estate del ’53 non è ammessa al corso di scrittura di Frank O’Connor. Ci teneva tantissimo, è in preda a una grave crisi nervosa, tenta anche il suicidio e per curarla la sottopongono a quell’invadente terapia, mentre la notizia della condanna alla sedia elettrica dei coniugi Julius ed Ethel Rosenberg, accusati di essere spie sovietiche, è su tutti i giornali. Sylvia rievocherà quegli avvenimenti nel romanzo, in parte autobiografico, The Bell Jar, che narra le vicende della protagonista Esther e dei suoi desideri più veri, in una società bigotta e maccartista, di una donna indipendente che ama vivere scrivendo, mentre le aspettative della società la destinano al matrimonio e alla cura della famiglia. La “campana di vetro” che scende inesorabile su Esther è dettata proprio da tutte quelle pressioni e aspettative sociali, dalla delusione di non poter partecipare a un corso di scrittura e anche dall’elettroshock che il dottor Gordon le pratica pe le sue crisi di nervi

…mi stava applicando due piastrine di metallo ai due lati della testa. Le fissò agganciandole a una correggia che mi incise nella fronte, poi mi diede un filo di ferro da stringere tra i denti. Chiusi gli occhi. Ci fu un breve silenzio, come un respiro trattenuto. Poi qualcosa calò dall’alto, mi afferrò e mi scosse con violenza disumana. Uii-ii-ii-ii-ii, strideva quella cosa in un’aria crepitante di lampi azzurri, e a ogni lampo una scossa tremenda mi squassava, finché fui certa che le mie ossa si sarebbero spezzate e la linfa sarebbe schizzata fuori come da una pianta spaccata in due. Che cosa terribile avevo mai fatto, mi chiesi.

L’autrice, quelle esperienze le ha vissute in prima persona, lei molto amante della scrittura ma con grandi fragilità psicologiche, si accompagnerà, lungo tutto l’arco della sua breve vita, a un diario personale nel disperato tentativo di riannodare il filo di un’esistenza concepita come corpo letterario. Molti taccuini e fogli sparsi sono oggi conservati, per lo più, nella Neilson Library dello Smith College di Northampton nel Massachussets, la prestigiosa istituzione privata dove Sylvia entrerà per merito nel settembre del ’50, con grande entusiasmo ma anche temendo l’inadeguatezza. I Diari pubblicati nel 1982 (in Italia li stampa nel 1998 la casa editrice Adelphi) sistemano solo un terzo di questi appunti, lo racconta lo stesso Ted Hughes, marito di Plath, confessando di averne distrutto un’altra parte perché “non volevo che i figli lo leggessero (in quei giorni l’oblio mi sembrava essenziale per la sopravvivenza)” generando, così, non poche polemiche.  Lui, proprio perché poeta, non potrà non apprezzare il valore letterario delle opere della moglie e, dopo il suo suicidio nel febbraio 1963, si occuperà di pubblicarle partendo nel 1965 dalla raccolta di poesie Arie. Un modo, forse, di riconoscerle un potere andato oltre la morte, dice infatti che lei è riuscita a legarlo a sé, quindi, con un valore che potremmo immaginare anche riparatorio, Ted Hughes ne sarà l’esecutore letterario.  Sylvia stessa, del resto, era consapevole del proprio valore, aveva sempre curato la sua scrittura in modo attento e avvertito, servendosene, forse, anche come argine al conflitto psicologico che andava in scena nella sua mente e a quel senso di vuoto che la portava a ripiegarsi su sé stessa, nella difficile ricerca di un’identità dai contorni più saldi e meno sfuggenti. Anche con il padre Otto Plath, di origine tedesca, un professore di biologia all’Università di Boston, Sylvia ha un rapporto conflittuale, la sua figura le appare fredda e distaccata, pur nei limitati ricordi che può avere una ragazzina di otto anni,  il padre muore per un diabete trascurato proprio allora, e la giovane non gli perdonerà mai questo abbandono. Sarà un rapporto di odio e di amore che la porterà nell’ottobre del 1962 a scrivere Daddy  poesia forte e provocatoria nella quale dolore e rabbia si dilatano fino a testimoniare di una protesta femminile contro tutte le forme di predominio maschile, espresse sia nei rapporti privati, sia che arrivino alle peggiori atrocità, come quelle consegnate da Hitler al mondo.  Nei Diari la poetessa della sua famiglia accenna brevemente al sentimento dell’assenza paterna con tuo padre morto, da qualche parte dentro di te, intessuto nel sistema cellulare del tuo lungo corpo, alle paure di un condizionamento materno con un brivido alle spalle quando sente che la tua voce smetteva di parlare e c’era l’eco della sua, come se lei si esprimesse in te, come se tu non fossi veramente tu, e al fratellino minore Warren Joseph che per la cagionevole salute monopolizza le cure della madre. Un’unità indissolubile, di tensioni e amore, di lealtà e solidarietà, che segna il destino di Sylvia ma alimenta anche il suo forte desiderio di indipendenza, non venendo mai meno quel disagio sofferto per l’appartenenza al genere femminile, in una società ancorata ai valori del patriarcato, è una terribile tragedia scrive infatti. La sua intelligenza e la sua cultura la rendono impopolare presso il pubblico maschile che le interessa molto, anche se non vuole venga scambiato per smania di seduzione o invito all’intimità. Una donna fragile ed indomita, così è Sylvia. A tratti anomala e a rischio di essere considerata folle o malata, con la psichiatria pronta a distruggere in lei sia il corpo dell’eros scollegato dalla maternità, sia quella ribellione ai codici sociali dominanti,  mentre si dibatte  tra la ricerca di una voce poetica ed il desiderio di piacere a tutti i costi, tra l’ambizione personale e i timori di un matrimonio castrante, desiderando di eccellere in tutti i fronti della vita, secondo un perfezionismo di chiaro timbro genitoriale. Con una meticolosità fredda, quasi da entomologo come poteva essere stato suo padre, è pronta ad osservarsi ed osservare il mondo senza sconti, scriverà infatti di sé stessa sono lieta di avere trascritto qui, nudi e crudi, alcuni degli inferni che ho passato con riferimento al grave esaurimento nervoso del ’53. Le cure della dottoressa Ruth Beuscher, che la seguirà anche negli anni successivi, la porteranno a superare la crisi e l’ultimo anno allo Smith sarà un successo, tra premi vinti, poesie vendute e la borsa di studio che le aprirà le porte di Cambridge. La poetessa si lascia alle spalle amori nei quali aveva voluto disperatamente credere, la relazione con Dick Norton durata qualche anno, ad esempio, con il ragazzo che studia medicina, è attraente e le spalanca un universo erotico elettrizzante, ma ciò non basta per convincerla a un ruolo di brava moglie e madre, oppure, nell’aprile del ’54 l’incontro con Richard Sassoon, uno studente di storia e filosofia, la loro sarà però una relazione molto tormentata. Il destino, intanto, è oltre la Manica dove ci sarà un incontro folgorante. Ted Hughes ha creatività e immaginazione sorprendenti, anch’egli è un poeta, scrive pure favole per bambini, e Sylvia lo sposa il 16 giugno 1956 confidando in un mondo cangiante pieno di successi editoriali e di bambini, che finalmente riesce a immaginare per sé. Una completezza perfetta, che non è di questo mondo, intanto è così innamorata che promuove le opere del marito, prim’ancora delle sue, la raccolta di poesie Lo sparviero nella pioggia è infatti prima a un concorso che ha come giudici W.H.Auden, Stephen Spender e Marianne Moore. Un risultato sorprendente di cui Plath gioisce senza invidia, nonostante lei stessa ricerchi, disperatamente, il suo personale riconoscimento. La scoperta di un’amante del marito, nonostante la nascita di due figli, in un rapporto connotato di tanta idealizzazione, e ancora ancora una volta, l’Io della poetessa riesce a frantumarsi, poco attrezzato, da sempre, rispetto alle tempeste della vita. La crisi depressiva che ne segue chiude la vicenda umana di Sylvia Plath con il tentativo di suicidio che riesce. Il suo riconoscimento letterario è postumo ma superbo, intenso e oltre i confini statunitensi e inglesi, nel ’65 il marito pubblica la raccolta di poesie Ariel, considerata il suo capolavoro, nel ’71 Crossing the Water e Winter Trees, dando finalmente contezza di un immaginario potente e di un valore letterario indiscutibile, che vanno ben oltre la vicenda biografica. L’Io poetico di Sylvia, pure se assediato dall’esperienza materiale, anela costantemente a dissolversi in una luce catartica, esemplare, in questa direzione, il componimento Ariel che dà il nome alla raccolta. La poetessa abitualmente nel Devon in Inghilterra, di prima mattina, amava cavalcare il suo cavallo Ariel, da questa ritualità prende corpo, come motivo d’ispirazione potente e vorticosa, la narrazione di una cavalcata. La parola poetica è carica di densità, emozione, angoscia ma anche liberazione, infatti oltre la Stasi nel buio la trasfigurazione, in un’ingovernabile galoppata ed oltre ogni limite materiale, la vede scagliata in un’alba finalmente nuova

E ora io
schiumo in grano, un luccichio di mari.
Il grido del bambino
si dissolve nel muro
E io
sono la freccia
la rugiada che vola
suicida, fatta una con lo slancio
dentro l’occhio
scarlatto, il crogiolo del mattino.
(Trad. G. Giudici)

Pochi versi che raccontano della poetessa che fin dalle sue prime prove letterarie, quali il contratto firmato a Londra per il manoscritto The Colossus and Other Poems pubblicato nel ’60, lavora incessantemente sull’uso e gli effetti dell’uso della parola nella poesia, sull’impiego del ritmo nel verso, sulla sua musicalità e sulla padronanza delle figure retoriche che danno ricchezza al linguaggio figurato. Avvicinarsi alla sua poesia, lasciandosi alle spalle i condizionamenti di una biografia disseminata di innumerevoli saggi e scritti critici valsa a farla diventare soprattutto “personaggio”, credo sia il modo migliore per incontrare da vicino l’esperienza dell’autenticità della sua poetica, raffinatamente capace di fare cogliere sfaccettature della vita che la vita stessa nasconde e che soltanto la vera poesia può disvelare.

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