Joan Didion, o della difficoltà di essere giovani

di Oscar Francioso

Di tutti gli autori e le autrici che mi hanno commosso fino alle lacrime, Joan Didion merita se non il primo il secondo posto sul podio, specie il suo memoir Bei Tempi Addio contenuto in Verso Betlemme. Si tratta di poche pagine; poche, ma piene di significato per chiunque si sia mai interrogato su cosa vuol dire “essere adulto”; pagine che, nel mio essere adulto, mi hanno aiutato con molte questioni irrisolte. Verso Betlemme è uno di quei libri da leggere in inglese, per godere appieno della lingua – che l’autrice evidentemente ama moltissimo – delle parole, della costruzione delle frasi e del fatto che lei possa prenderti per mano e condurti esattamente dove vuole. Bei Tempi Addio parla di tante cose, ma soprattutto dell’autrice che, nel 1959, aveva vent’anni e sognava New York. L’inizio della sua vita sembra l’inizio di un film romantico: una ragazza di vent’anni, campagnola, che sogna la grande città e riesce ad andarci. E, come in un film, appena arrivata a New York cerca con lo sguardo il famoso skyline, ma è circondata dalla desolazione urbana e non lo trova e forse, quel vestitino che a Sacramento – la città da cui viene – sembrava così carino e alla moda, a NY non è granché.
C’è una differenza tra il suo sogno e la realtà, ma lei negli otto anni successivi quel sogno lo vivrà appieno. Solo durante brevi momenti di lucidità riuscirà a vedere la situazione per quella che è: New York è una città per molto ricchi, per molto poveri o per molto giovani, dove niente cambia davvero o se cambia, non cambia a lungo. In quei brevi momenti realizza di vivere in un miraggio fatto di film e canzoni: prima o poi, ci sarà un prezzo da pagare per tutto quanto. Didion racconta cosa vuol dire essere giovani nella città dei propri sogni: ottimismo, feste, credere che qualcosa di bello, nuovo e affascinante possa accadere da un momento all’altro; e al contempo, mette in luce il proprio profilo complesso e contraddittorio. Anni fatti di menzogne e certezze. Sa perfettamente che non sposerà mai il ragazzo che ha lasciato a Sacramento, gli mente al telefono, dicendo di vedere il ponte di Brooklyn fuori dalla finestra, omette di dire a suo padre che è povera e che guadagna solo 70 dollari a settimana. Sa che suo padre l’aiuterebbe ed è proprio questo che non vuole: essere aiutata. È come se fosse divisa in tre, la ragazza che era a Sacramento, la donna che è e la donna che vuole essere a New York. E lei vuole essere adulta, cavarsela da sola. Essere adulti è quasi un gioco. Anzi, ogni cosa è un gioco e niente ha davvero importanza perché “in qualche modo si farà”. Perfino il tempo è un concetto inutile, in quanto infinito. Ci sarà sempre tempo per fare qualcosa, per mantenere promesse o andare a feste o per passare pomeriggi a bere con amici o per stare svegli tutta la notte e guardare la città alzarsi.
Una delle prime frasi del racconto suona come “Ricordo quando New York iniziò per me, ma non ricordo quando finì”. È un’altra menzogna, perché lei sa perfettamente quando il sogno finisce e lo racconta. Finisce a 28 anni, l’età in cui capisce che esiste un prima e un dopo e che anche i sogni finiscono o svaniscono. Nel bene e nel male. Non accettare che il sogno è andato, che il tempo è finito, porta solo alla distruzione e all’autodistruzione.
Nei film l’eroina lotta e raggiunge il proprio obiettivo. Nella vita vera, dopo aver raggiunto l’obiettivo le cose continuano, vanno avanti e sono sempre un po’ più complicate di quanto preventivate. Anche la città che avevi amato ti viene a noia. Le sue strade, i suoi quartieri. Alla fine, ti ritrovi a 28 anni, depressa senza sapere bene il perché, nel tuo appartamento vuoto con un sacco di promesse fatte e mai mantenute. Questo, almeno, è quello che è successo a Joan Didion. Quello dei suoi 28 anni è un simbolo, il simbolo che tra il prima e il dopo c’è un periodo di comprensione, spesso spiacevole. Il dopo della Didion è stato quello di sposarsi e di andare a vivere con il marito a Los Angeles. Il dopo non è meno importante del prima. È solo diverso, perché le cose cambiano e il cambiamento è una cosa da accettare.

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