Gli itinerari sognanti di Elsa Morante. La scrittura onirica nel “territorio del Diavolo”

di Edoardo Maresca

Nelle notti romane, che d’estate sanno di marciume e gelsomino, io penso a Elsa Morante. Elsa, io me la figuro che cammina per le strade del centro e i vicoli di Rione Monti, Trastevere e Testaccio, con la sua capigliatura ad ala di corvo e l’andatura diritta e severa, gli occhi vigili e sospettosi. Un fascio di giornali è stretto al petto; palpita, nella mano libera, un cappello a falde larghe. Cammina per una Roma che è, intrinsecamente, città polposa e massacrante, una ragnatela urbana che vive di contrasti e mutilazioni, esattamente come lei. 
Non penso ci fosse altra città al mondo in cui Elsa potesse nascere. O meglio: Roma è la città che meglio di tutte incarna le contaminazioni, le contraddizioni e le smagliature poliedriche e culturali che sempre hanno contraddistinto la Morante. Ma a pensarci bene, Elsa sarebbe anche potuta nascere altrove: in qualche segmento urbano del profondo entroterra ispanico, ad esempio. O, meglio ancora (più vicino a noi) a Procida, o in qualche altra isoletta del primo Mezzogiorno che ha la caratteristica di riversarsi, con un fiato esangue e asprigno, sul mare: su un pugno di rocce e croste acquatiche, là dove Elsa stessa fece spargere le sue ceneri dopo la morte. 

Nei suoi racconti, nei suoi romanzi, sempre accade che le rotte narrative si intersechino verso luoghi e sfondi privilegiati: gli itinerari di Elsa a malapena toccano il Nord; prediligono piuttosto ambientazioni e percorsi che da Roma si spingono verso la Campania, passano per la Calabria e arrivano fino alla Sicilia. Il furore del Sud, del sangue avvelenato, dell’inquietudine morbosa ha abitato e affascinato Elsa come un anelito di morte e vita insieme: la scrittura nasceva in lei, si potrebbe dire, mescolata alla polvere di terre rupestri e pietrose, crude come solo le terre del Sud sanno essere. 

Elsa portava in sé un’identità multipla e frammentata: siciliana da parte di padre ed emiliana da parte di madre. Viveva un conflitto di sangue misto, di difficile conciliazione. Ma se l’Emilia non ha certo spazio incisivo sulle carte di Elsa (è accennata in maniera vaga e incostante: bolognese, ad esempio, è uno degli sfollati de La Storia che viene a trovare rifugio nel ricovero di Pietralata dove riparano Ida e suo figlio dopo i bombardamenti) appaiono, invece, in maniera massiccia, personaggi fantasiosi – e menzogneri – che nascono dalle terre di Scilla e Cariddi, che si muovono come ninfe sui bordi d’una laguna siracusana incantata, risalgono per i territori della Calabria, spingono le loro radici fino alle isole campane e da lì intonano un canto che, attraverso la superficie del mare, arriva fino alle coste ispaniche. 

La letteratura di Elsa Morante attinge così a un gusto spagnoleggiante e onirico, incornicia, tra gli archi delle parole, un Mezzogiorno tragico e sanguigno che ha antenati nelle terre picaresche. Un impasto di lingue, immagini, storie e percezioni che tramutano l’Italia in una penisola italo-iberica, a momenti: l’illusa Elisa di Menzogna e sortilegio; il vorace e orgoglioso protagonista de L’isola di Arturo; la timida e spaurita Ida de La Storia; l’oriunda ribelle spagnola Aracoeli, dell’ultimo romanzo della Morante, intitolato, appunto, Aracoeli

I personaggi di Elsa Morante nascono in una terra di mistiche tradizioni, da una materia crostosa e immaginifica, non esclusivamente surreale ma dove il sogno partecipa alla vita e fa incursioni continue nella stessa. Sono personaggi che si interrogano, vivono di palpitazioni, di bisogni, di tormenti smodati e su cui dondola, come una spada di Damocle, la falce della solitudine e, quasi sempre, l’oblio della morte. La morte, gemella segreta del sogno, sta in attesa, partecipa alle vicende da acuta osservatrice; per poi agire, non tanto come esito fatalistico o predeterminato, quanto più come una presenza subdola e necessaria: il gorgo della morte si trascinerà con sé, ad esempio, sia Arturo sia Ida Raimundo e tutta la sua famiglia. È un delirio di cognizione, la morte: una lucidità aggressiva, una lama bollente di consapevolezza. Esattamente come il sogno. I sogni, da una parte, appaiono ai personaggi morantiani più come frammenti sparsi di inquietudini e timori, mentre dall’altra la morte ne è l’apoteosi e la compiutezza: l’arazzo ultimato e compreso di ogni suo tassello. Basti pensare al Don Quijote de la Mancha (di cui Elsa Morante conservava un’illustrazione nel suo studio) consumato dalla febbre e non più in grado, in extremis, di discernere la realtà dalla fantasia, ma solo di confondere l’una dentro l’altra. 

Se quindi la vita è sogno, come dice Calderon de La Barca, e il sogno è salvezza, chiave di accesso per formulare domande e trovare risposte, la morte è forse una liberazione, un risveglio propiziatorio, unica realtà possibile che svela all’uomo la vera natura dell’esistenza e l’inconsistenza del mondo? Elsa Morante sembra occhieggiare in parte a questa credenza: mutua, al pensiero andaluso, l’idea che sognare dà un’idea e un metro della vita, una via non tanto di fuga quanto di accesso per leggere le ansie e gli sgomenti esistenziali. 

Nel suo studio, che si affacciava su Piazza del Popolo (e contraddistinto da una semplicità e un’eleganza trasognate, con tappezzerie e scialli tinti di colori passionali, rossigni, visceralmente andalusi1) troneggiava, tra i vari cimeli, come sopra detto, la raffigurazione di Don Quijote e Sancho Panza nell’illustrazione più famosa di Pablo Picasso, quasi il condottiero e il suo fedele compagno facessero da numi tutelari sulla sua inventiva, a ricordarle che sognare è funzionale a costruire un discorso sulla realtà. 
Una pratica della scrittura, quella morantiana, che diventa allora una sorta di “mestiere di vivere”, volto a rappresentare le difficoltà delle relazioni umane in un contesto nel quale il sogno costituisce l’appagamento in via allucinatoria dei propri desideri da parte di personaggi che sono destinati alla frustrazione e all’isolamento, come afferma Elena Porciani. 

“La vida es sueño” cita Elsa all’inizio di Diario 1948, testo uscito postumo ma che, a mio parere, andrebbe letto in principio, prima dei capolavori che hanno sancito la grandezza narrativa di una scrittrice non comune, dal momento che, più di tutti, il Diario rivela, con essenziale brevità e schiettezza pura, le passioni e i tormenti di una scrittrice che prima di tutto è stata donna e indagatrice del reale. Leggere il Diario apre infatti squarci dolorosi ma rivelatori sui pensieri e i dolori di Elsa: il suo cuore sanguinante confessa le tribolazioni e le speranze, che hanno anticipato gli anni del successo, attraverso i sogni che, ogni sera, la Morante faceva. Esattamente come la principessa Carola, protagonista del racconto Appuntamento (oggi raccolto nell’antologia Racconti dimenticati), la quale “tutte le sere, a mezzanotte […] aveva appuntamento con un sogno”. 

Personaggi che viaggiano attraverso gli spazi del reale e i sotterranei di un mondo polimorfo, nascosto, certamente ctonio. E che non possono non essere collocati in quelle terre carnali e prorompenti del Sud. Un Sud che, per citare Flannery O’ Connor, potrebbe essere definito come “territorio del Diavolo” per eccellenza. Territori di fiaba, di immaginazione, dove i personaggi sono veri ma al tempo stesso scontornati e sembrano ogni volta dissolversi per poi riacquistare forma e consistenza. 

Nelle terre flagellate dal sogno, da Roma in giù, Elsa ha cioè svelato la matrice affabulatoria della realtà passando per il mitico e il visionario, risalendo in superficie per poi di nuovo affondare negli abissi, in un continuo alternarsi di memoria, storia, esplorazione del mistero e dell’interiorità, su una circolarità di tracce che attraversano il bacino mediterraneo, che partono da Roma, veleggiano lungo la costa amalfitana, attraversano gli antri di mostri e sibille siculi, si spingono fino alle antiche colonne d’Ercole e poi tornano verso le coste laziali, lì dove i gabbiani lacerano le notti e levano il loro grido. Lì dove, in silenzio, mescolate al mare e al vento, turbinano, ancora, le ceneri di Elsa.

1 La ricostruzione dello studio di Elsa Morante è oggi visibile alla Biblioteca Nazionale di Roma, in Viale Castro Pretorio 105, presso lo Spazio 900, allestito all’interno della Biblioteca stessa.

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