di Manu Bazzano
Look up here, man, I’m in danger.
I’ve got nothing left to lose.
David Bowie, Lazarus
Una delle illustrazioni dell’album di David Bowie Heathen (pagano) è una foto in bianco e nero di tre libri impolverati su uno scaffale: La gaia scienza di Nietzsche, La teoria della relatività di Einstein L’interpretazione dei sogni di Freud. Einstein prende il posto di Marx nell’empia e feconda trinità dei “maestri del sospetto”. Votato ad altre sedizioni, Bowie non fu propenso ad abbracciare la rivoluzione sociale, una spinta in verità soggetta alle ristrettezze dell’agitprop nell’arte (nonostante Majakovski, Brecth, Neruda, Fassbinder) e a schitarrate stonate nella musica (nonostante Coltrane e i Clash).
Nei momenti migliori, il rock e il pop sono alchemie accessibili, molecole d’aria che filtrano nell’anima, flirtano con il cuore e infoiano i sensi a voli incerti. Tutto ciò è presente in Bowie ma c’è ben altro. Messaggero di estetismi d’altri tempi (Walter Pater, il Bloomsbury Group, l’oltreuomo nietzschiano, Oscar Wilde, infinite riproduzioni amletiche, la fantascienza) e di prodotti consumabili (dai musicals di Anthony Newley a Jacques Brel ai ritmi di Little Richard), il registro è un misto inquietante/esilarante di melanconia pre-apocalittica mista a fantasia post-apocalittica. Per Bowie il rock’n’roll fu sempre e soltanto una forma di teatro, e il suo ruolo quello di un attore che recita la parte di una rock star. E chi meglio di lui ha recitato tale ruolo? La sua biografia poi ci istruisce sulla fama, sull’arte corrotta dai soldi e su come sopravvivere al limite di una spinta dionisiaca verso l’eccesso.
Contaminatore di metafisiche d’occasione del tempo a venire. Precorritore della sessualità fluida e ambigua, pomo della discordia del tempo presente con torme di imbestialiti in pantofole sui giornali e sui social abbraccati agli atavismi di “uomo” e “donna” e persecutori di chiunque s’incammini su perscorsi singolari.
Bowie va oltre il dandismo; rimette in circolazione l’ontologia degli antichi Greci: riscoprire la superficie delle cose dopo aver sondato gli abissi; superficialità sublime; diventare superficiali a causa d’eccessiva profondità; amare i riflessi del sole sull’acqua, geroglifici effimeri/eterni come l’eco di voci umane nel blu torrido di questo pomeriggio. Se guardi l’abisso a lungo, l’abisso guarderà te, diceva Nietzsche. Bowie guarda l’abisso e dagli inferi (della cocaina e d’una schizofrenia schivata) ne esce come icona della haute couture. A differenza di Warhol e della disseminazione geniale e dirompente nella fattualità/banalità del quotidiano, l’arte di Bowie è limata fino all’astrazione siderale, redenta da intermittenze d’emozione e lirismo, dalla brama di sopravvivere fino all’indomani, dalla malinconia delle memorie involontarie di Berlino anni ’70, dalla speranza di trovare conforto nelle stelle del firmamento e in quelle dello show business.
Ma non c’è una dannata canzone che può farmi crollare e piangere? dice un verso della canzone Young Americans. Speranza umana, troppo umana, contrappeso a ciò che il trentaquatrenne Bowie descrive in una conversazione con William Burroughs come propensione alla filosofia pesante: Il nome Bowie mi piaceva da ragazzo. A sedici anni ero intriso di filosofia pesante, a caccia d’un termine che indicasse la voglia di tagliar corto, venire al sodo, e così via (un riferimento al “coltello bowie”, un tipo di coltello americano particolarmente tagliente).
Filosofia pesante? Ogni parola nel testo della copertina di Heathen è cancellato da una linea retta – il modo in cui la nozione di śūnyatā (vacuità) del filosofo buddista Nāgārjuna andrebbe scritta, aggirando la compulsione umana di reificare e tramutare la vacuità (come del resto ogni “entità”, compresi noi stessi) in un oggetto.
Echi di Burroughs infestano diverse canzoni, e gli echi dell’opera matura di Scott Walker le aggravano, rendendole inaccessibili quanto basta a evitare la mummificazione come tesoro nazionale inglese, onore equivoco elargito ai cosiddetti artisti che abbelliscono l’ordine infame delle cose. Un piede instabile nell’avanguardia e l’altro nel mondo dell’effimeralità luccicante, costellato da riferimenti deliziosamente esoterici – a Georges Rodenbach, ad esempio, il cui romanzo Bruges la morta m’immagino sia stato l’ispirazione involontaria dell’omaggio di Bowie a Berlino, la canzone Where are we now?
Il cliché vuole che i vari personaggi indossati da Bowie (Ziggy Stardust, Aladdin Sane, Halloween Jack, il Thin White Duke) siano re-invenzioni camaleontiche, mimetizzazioni che occludono la persona ‘vera’ dell’artista. Ma la persona vera non esiste. Le maschere non sono occultamenti ma creazioni, esempi squisiti di un’estetica dell’inautenticità che allude alla realtà concreta – arte radicalmente artificiosa e riflessivamente consapevole, confezione d’illusioni la cui artificialità non è falsa ma messa al servizio di una verità sentita e corporea. In un’epoca in cui politica e cultura sono dominate da “personalità” e da una retorica di “autenticità”, la profonda ambiguità di Bowie mostra la natura fluida e inconsistente dell’io. La filosofia dell’anti-tradizione ha da sempre affermato qualcosa di simile. Per David Hume, il sé è un fascio sconnesso di percezioni. Simone Weil parla di de-creazione, un processo che danza attraverso spirali di negazioni sempre ascendenti fino a raggiungere … il nulla.
Durante le riprese del video di Lazarus, una delle canzoni nell’ultimo album Black Star, i medici lo informarono che il cancro era terminale e che avrebbero interrotto il trattamento. Il video presenta Bowie in primo piano sul letto di morte con una benda e bottoni cuciti sugli occhi, consapevole della fine imminente e preso da un desiderio di liberare la sua creatività per l’ultima volta. Nell’ultima scena Bowie cammina a ritroso e si rinchiude in un guardaroba vuoto e buio. L’immagine, a un tempo commovente, disperata e piena di vitalità, ricorda un precedente storico di cinque secoli prima.
Una delle ambizioni di John Donne, poeta rinascimentale inglese e decano della cattedrale di St Paul a Londra, era quella di morire sul pulpito. Quasi vi riuscì. Il 25 febbraio 1631, gravemente malato, s’alzò dal letto per predicare il suo ultimo sermone, il famoso Duello della morte. Il suo aspetto, racconta John Carey, causò costernazione fra gli ascoltatori e qualcuno scrisse che Donne aveva dato l’elogio funebre di se stesso. Non morì sul pulpito, ma trovò un altro modo di trasformare la sua morte in un’opera d’arte. Si procurò una grande urna di legno e una tavola. Si spogliò, indossò il sudario, con nodi legati alla testa e ai piedi, salì sull’urna dove si mantenne in equilibrio. Rimase così mentre un artista disegnò il suo ritratto a grandezza naturale, e tale ritratto fu poi appeso accanto al letto, per ricordargli cosa gli riservasse il futuro e per mostrare il coraggio e maestrìa con cui l’affrontava.
Come Bowie, John Donne rappresentò la sua fine. L’ultimo album di Bowie uscì il giorno del suo sessantanovesimo compleanno, l’8 gennaio 2016, due giorni prima della morte.
Nell’autunno del 1967 Jean Genet si trovò a passare da Londra, e s’innamorò del suo spirito carnevalesco. Al tempo Bowie aspirava al ruolo della drag queen Divine per la versione cinematografica del romanzo di Genet Notre Dame des Fleurs. Genet e Bowie decisero d’incontrarsi in un ristorante. Mentre gli altri nel gruppetto di Genet si guardavano intorno cercando invano di scorgere Bowie, con occhio acuto Genet notò una donna attraente seduta da sola. Le si avvicinò e disse: Monsieur Bowie?