Nel 1939 la voce roca e malinconica di Billie Holliday in un nuovo locale nel Greenwich Village a New York intona Strange Fruit a chiusura del suo spettacolo. È un pugno nello stomaco al suprematismo bianco. La lady del jazz interpreta, nel modo a lei più congeniale, una canzone di protesta contro i linciaggi dei neri, ancora numerosi specie nel Sud degli Stati Uniti. L’emozione è forte, l’evocazione di quei corpi che penzolano da un albero trasuda violenza, ma ci vorranno ancora molti anni perché esploda in tutta America la protesta razziale. La discriminazione intanto non è soltanto verso i neri, alla fine della seconda guerra mondiale anticomunismo è la parola d’ordine. Essere comunisti dal 1950 al 1954 è reato, il capitalismo si avvia a diventare la nuova religione della società e la famiglia medio borghese, ottimista e consumatrice, è il modello sociale vincente. I costumi sessuali sono rigidi e bisogna arrivare al 1962 perché l’Illinois primo stato americano abolisca la legge contro la sodomia. L’omologazione e il perbenismo che regna nella società americana rifiuta tutto quello che non si conforma al modello politico e sociale dominante, mentre le crepe del dissenso sono ben mascherate nelle pieghe di un controllo sociale forte. Anche la cultura accademica detiene salda la tradizione letteraria dei padri, ma dove si respira l’aria di un primo dissenso, come sempre accade, le accademie non possono restarne fuori. La traiettoria letteraria della beat generazione, così definita da un visionario Jack Kerouac, all’inizio ruota intorno a un circolo di studenti della Columbia University di New York. Il nuovo approccio artistico, intanto, non è del tutto naive perché quei protagonisti, dentro la cultura accademica, sono pronti alla loro operazione di affrancamento culturale e il movimento beat presto investirà tutta l’America grazie alla mobilità dei suoi poeti-profeti. San Francisco è il fertile terreno per le loro letture collettive di poesie e con i suoi reading la città diventa punto di riferimento della controcultura americana. La nuova generazione di poeti degli anni Cinquanta può contare sugli scrittori di protesta degli anni ’30 come Kenneth Patchen e Kennet Rexroth che accusano la tradizione poetica di T.S.Eliot e Ezra Pound di guardare troppo verso la vecchia Europa, loro invece sono affamati di presente e vogliono gettarsi a capofitto nella società americana contemporanea, certi di trovare l’ispirazione per una nuova epica americana. William Carlos Williams, sicuramente, con la sua maggiore opera Paterson ispirata alla città industriale del New Jersey canta la modernità produttiva, aprendo un nuovo solco d’interesse poetico. Il poeta, per lui, deve cogliere il legame profondo tra gli uomini, i luoghi e le cose, negando la visione soggettiva dell’io e diventando esso stesso la città, con intorno le cascate del fiume Passaic, pronto a raccogliere di questa terra sentimenti e storia, racconto del passato e senso del presente. Il linguaggio poetico, a sua volta, deve mutare, secondo una particolare metrica che si riscopre il diluvio possente del verso whitmaniano, che srotola liberamente il discorso in avanti, in questa Paterson città-mondo dove tutto accade e tutto può essere poeticamente colto. Nella prefazione del poema Paterson, pietra miliare della poesia post-moderna, è possibile cogliere la sintesi del manifesto artistico di Williams:
Eppure non c’è
ritorno: srotolandosi dal caos
miracolo di nove mesi, la città
l’uomo, un’identità – non può essere
altrimenti – un
impenetrarsi, nei due sensi. Arrotolandosi!
diritto, rovescio;
l’ubriaco il sobrio; l’illustre
il volgare; tutt’uno. Nell’ignoranza
una certa sapienza e sapienza
indispersa, il proprio disfarsi.
(traduzione di A. Rizzardi)
Un messianico Williams che introduce nuove regole di versificazione attente agli aspetti fonetici, quali accento e rima, è il variable foot che si basa sull’idea che ogni linea corrisponda a una singola unità di respiro, mentre degli anni ’40 è la sua metrica dei tre versi a scalino, dove il discorso poetico avanza in un susseguirsi di discese e rimbalzi del verso su sé stesso. Sarà proprio lui ad avvedersi del talento di un occhialuto giovane del New Jersy, fisicamente gracile e introverso, figlio di una ricca e colta coppia della borghesia ebraica. Il ragazzo a quindici anni legge Song of Myself di Walt Whitman restandone incantato, un incontro del destino che lo consegnerà dritto alla poesia e che segnerà per sempre la sua cifra espressiva. Allen Ginsberg è il suo nome, un ragazzo introverso e visionario, che arriva alla Columbia University di New York con una borsa di studio, non immaginando nemmeno di incontrare altri giovani, sconosciuti e talentuosi, che formeranno un gruppo artistico che segnerà per sempre la controcultura americana. I loro nomi Jack Kerouac, Neal Cassady e William Burroughs, condividono la voglia di denunciare una società che riconosce i valori del passato come universali e verso la quale avvertono un profondo senso di estraneità; tra loro uno scambio serrato di idee e il dichiarato bisogno di esperienze, mentre le rivelazioni omosessuali e la ricerca di droghe sono in nome di una libertà espressiva e di un’espansione della coscienza. Trasgressività è la loro parola d’ordine, e quando le intemperanze di Allen Ginsberg che aveva scritto una frase oscena sul vetro di una finestra vengono punite con una sospensione, i suoi amici Neal Cassady e Jack Kerouac lo coinvolgono in un’avventura on the road per le strade degli Stati Uniti e del Messico. Sono uniti tutti dal rifiuto del conformismo sociale e del modello consumistico che esalta, Kerouac e i suoi amici beat (battuti/beati) sono alla ricerca di esperienze reali di vite poco preconfezionate, prostitute, dealers, vagabondi, ragazze madri sole, i battuti della strada popolano il loro diario di viaggio on the road. Un giornalista un giorno chiese a Kerouac cosa stessero cercando, e lo scrittore “Dio, voglio che Dio mi mostri il suo volto” mentre la società americana scommette sul dio-profitto. La mistica orientale e l’uso delle droghe li fa ritrovare insieme beati dentro esperienze vissute come ampliamento di una soggettività espansa. Allen comunque riuscirà a laurearsi. Quindi in una sala d’attesa del manicomio di Rockland conoscerà il poeta Carl Solomon, il poeta è in visita alla madre, l’altro, invece, vicino al movimento dadaista, si era fatto internare nell’ospedale per vivere un’esperienza dadaista. A lui Allen dedicherà la sua opera più conosciuta Howl mentre ne 1954 va a vivere a San Francisco dove potrà vivere apertamente la sua omosessualità legandosi al poeta Peter Orlovsky in un patto nuziale che, tra alterne vicende, durerà per la vita. Il 13 ottobre 1955 la città californiana si appresta a vivere quella che sarà considerata la nascita-evento della Beat Generation, sei poeti alla Six Gallery del libraio-editore Lawrence Ferlinghetti, lì radunati da Kenneth Rexroth in reading di poesia, vino, musica, versi in libertà e satori gratis, cioè l’esperienza del risveglio spirituale nella pratica del buddismo zen. Allen Ginsberg quella sera legge per la prima volta la sua poesia Howl cioè l’Urlo in un entusiasmo che arriva alle stelle e quella sera verrà scritta una pagina indelebile della storia americana del XX secolo, con Ferlinghetti che troverà il modo di pubblicare l’opera, sfidando la censura e il successivo processo per oscenità. Ci sarà una storica sentenza di assoluzione che segnerà una pietra miliare nel diritto statunitense, il giudice difende infatti quei versi, apparentemente esagerati e offensivi di una certa morale americana, proprio perché ne coglie la valenza sociale e manca l’intenzione di offendere la morale di alcuno. L’opera è un diluvio di versi liberi ma ritmati. Allen è turbato dal ricovero dell’amico Solomon nell’ospedale psichiatrico Pilgrim State, ma anche per avere autorizzato la lobotomia di sua madre Naomi, apre così il suo componimento con un’immagine molto forte che sconfina in un tragico contrasto
Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche,
trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa,
hipsters dal capo d’angelo ardenti per l’antico contatto celeste con la dinamo stellata nel macchinario della notte.
L’iterazione del pronome relativo (I saw (…) who) consente la vorticosa sequenza di situazioni, un’enumerazione di momenti di vita vissuta on the road da e con i suoi vecchi amici, il coraggio di Allen è non mettere le distanze, piuttosto esprimere una vicinanza, dichiarando di sentirsi uno di loro. Quella scrittura è il battito dei loro cuori che ha il suo ritmo cadenzato al ritmo del jazz. Quella scrittura è dedicata a Carl Solomon e la vicinanza a lui è soprattutto nella sezione dove il verso si fa litania ed Allen ripete ossessivamente “Carl Solomon! Sono a te a Rockland!” Sono versi colmi di un’infinita crescente amorevole disperazione per l’amico in camicia di forza e per quell’amico dove cinquanta altri elettroshock non restituiranno la sua anima al suo corpo dal pellegrinaggio a una croce nel vuoto. Quella scrittura, come ebbe a dichiarare lo stesso Allen, fluisce mentre l’ombra di Naomi accompagna versi che forse sono dedicati a lei, il poeta infatti confesserà “Dopo averlo scritto mi sono reso conto che in realtà l’avevo dedicato a lei. Howl in un certo senso è più suo che di Carl. Perché l’emozione che ne nasce viene da mia madre, non da qualcosa di superficiale come una conoscenza successiva, quale è stata quella di Carl”. A far da ponte tra le due sezioni una terza, Ginsberg sotto l’effetto del peyote, allucinogeno in uso nelle culture native americane nei loro riti medici e religiosi, vede nella notte dalla sua finestra l’albergo Sir Francis Drake come un grande ciclope e le finestre illuminate gli sembrano un “teschio di Moloch” che lo fissa. Una visione potente che il poeta decide di utilizzare come simbolo moderno di Moloch, dio del fuoco in onore del quale in un rito collettivo i genitori gli offrivano in sacrificio i loro bambini bruciati, per attaccare la pervasività della produzione capitalista dove il profitto è l’orizzonte nel quale perdersi “Moloch! Moloch! Appartamenti robot! sobborghi invisibili! tesori di scheletri! capitali cieche! industrie diaboliche! nazioni spettrali! manicomi invincibili! cazzi di granito! bombe mostruose!” Quanta rabbia, quanta visione anticipatrice di una pervasività che anestetizza ogni afflato spirituale. Allen Ginsberg così sintetizza il suo componimento “La prima parte della poesia tratta con partecipazione alcuni casi individuali. La seconda parte descrive e rifiuta la società di Moloch che confonde e distrugge l’esperienza e le forze individuali e costringe l’individuo a considerarsi pazzo se non respinge le proprie sensazioni più profonde. La terza parte è un’espressione di partecipazione e identificazione con Carl Solomon che è in manicomio, e dice che la sua follia è fondamentalmente una ribellione contro Moloch, e io sono con lui, e gli tendo la mano”. Ma ancora non è tutto finito, e quell’afflato spirituale, in un finale davvero incandescente, rivendica una lettura, nella splendida traduzione di Fernanda Pivano, quei versi sono pieni di profetica illuminazione ed onorano un altro grande maestro di Allen, quel William Blake che aveva scritto “tutto è santo”. E l’allievo ribelle lancia il suo finale urlo poetico, la sua personale visione del mondo, esprimendo ciò che è importante cogliere, un’essenza che unisce ogni cosa, che è santità di tutte le cose, da ciò che è infinitesimo a ciò che è stata musica, compagna, viaggio, visione, sofferenza, in fondo tutto ciò che appartiene al mondo, dove santa è l’eternità nel tempo e santo il tempo nell’eternità e, infine “Santa la soprannaturale ultrabrillante intelligente gentilezza dell’animo!” (traduzione di F. Pivano).
Holy!Holy!Holy! … per una suggestione sonora Patti Smith con Spell in omaggio all’ultima parte di Howl, grazie Manu!
articolo meraviglioso, grazie!