Nemmeno quel giorno Dio avrebbe bussato alla porta di Christine. Lei lo attendeva con una certa impazienza, da quando piccolissima era stata sul punto di morire per via della prima di una lunga serie di malattie che l’avevano colpita. Non che Christine avanzasse a Dio rimostranze di alcun genere. Non era colpa sua se era venuta al mondo gracilissima in una famiglia numerosa che faceva a pugni ogni giorno con la miseria più nera. Non era colpa sua se l’andirivieni continuo di scrofola e polmonite le aveva compromesso la vista e l’udito, obbligandola a lasciare la scuola prestissimo e a stare rinchiusa in una casa fatiscente, mettendosi all’opera per aiutare la madre. Christine aveva imparato presto a cucire, i lavoretti che portava a termine ogni giorno per conto degli abitanti del paese garantivano ai suoi familiari una piccola ma sicura entrata. Alla sera, dopo aver atteso il ritorno di suo padre e dei suoi fratelli più grandi dalla miniera, tutti si ritrovavano attorno a un tavolo per consumare quel che Christine e sua madre avevano preparato per la cena. Messe a letto le sorelle più piccole, lei si rintanava in un angolo e al lume di una candela si rifugiava nella lettura. Amava con intensità la poesia e con uguale fervore si dedicava alle storie della Bibbia, soprattutto ripeteva tra sé a fil di voce le vicende dei Vangeli. Christine ardeva per l’uomo di cui parlavano gli evangelisti, il Dio che si era fatto carne sacrificando se stesso sulla croce per la salvezza degli esseri umani. Prima o poi, rimuginava Christine, Lui le avrebbe fatto visita. Allora avrebbero parlato a lungo. Non le interessava lamentarsi per la sua esistenza di stenti in quella valle austriaca immersa in una natura ostile che alimentava incessante le crudeltà dei suoi abitanti. No, non si trattava di questo. Dio ne era a conoscenza, Christine ne era sicura. Lei nutriva un semplice bisogno infantile: ringraziare Dio per averle conservato gli occhi malgrado le infezioni che li avevano tormentati. Christine continuava a vedere, poteva leggere. Ben presto, i libri che erano riusciti a fortificare il suo spirito avevano dato origine alle sue prime poesie. Parole che sembravano provenire da un passato arcaico si erano rovesciate copiose su pagine e pagine riempite al chiarore fioco di una candela. La sua esperienza di Dio era protagonista indiscussa di quei versi, il cui lacerante ardore mistico era testimonianza di una fede per niente ingenua. Christine era consapevole che il silenzio del Dio a cui si rivolgeva la metteva dinanzi a dubbi continui. A costo di immense fatiche, lei riponeva quei dubbi in un angolo del suo animo, sapeva che se avessero avuto il sopravvento sarebbe stata la fine. Smettere di credere equivaleva ad abbandonarsi all’inferno nel quale era nata e cresciuta. Perdere la fede l’avrebbe assoggettata al destino di bruttezza irredimibile a cui erano condannati quelli che la circondavano. Lei doveva resistere, per loro ancor prima che per se stessa.
A poco a poco la sua vita mutava. Fratelli e sorelle abbandonavano la casa dei genitori. Si sposavano e mettevano su famiglia, replicando senza possibilità di scegliere altrimenti un modello secolare in un contesto che vincolava tutti senza esclusione. Christine restava sola in casa, accudiva i genitori ormai anziani. Tirava avanti grazie al cucito e ogni tanto chiedeva qualche soldo ai fratelli maggiori. Alla sera, rigovernata la cucina dopo la cena, metteva a letto suo padre e sua madre, si accucciava nel suo abituale angolino e sempre alla luce tremolante di una candela, scriveva e attendeva la visita di Dio. Poi i genitori morirono, uno dopo all’altra lasciarono Christine sola a badare a se stessa. Quando lei capì che il silenzio persistente di Dio stava facendo breccia nel suo spirito affranto, era troppo tardi. Christine fu vinta da una solitudine maligna e temendo di perdere il senso di quel che le accadeva, chiese di poter essere ricoverata al manicomio di Klagenfurt. Qui era convinta che avrebbe ritrovato il suo amore per Dio, qui era certa che Lui le avrebbe fatto visita. Si mise nella disposizione dell’ascolto e vigile, mentre affiancava con tenacia la scrittura delle sue poesie al resoconto in prosa di quella esperienza di reclusione volontaria, attese anni che Lui bussasse alla sua porta. Scoppiò la guerra, un suo connazionale salito al potere nella vicina Germania aveva acceso tenebre fittissime, minacciando nuovi inferni ovunque la sua superbia omicida fosse arrivata. Dio continuava a tacere. Anche Christine adesso misurava le parole con cura tenace. Forse è il silenzio la lingua con la quale Dio riesce a comunicare con noi, rifletteva Christine. Forse il modo di chiedere a Lui una visita è quello di imparare la grammatica di questa lingua estranea. La grammatica del silenzio cominciò a occupare i pensieri quotidiani di Christine. Lasciò il manicomio e tornò nel suo villaggio. Il suo fisico peggiorava con maggiore rapidità. Da sola non sarebbe riuscita a mantenersi, le sue forze erano ormai ridotte a poca cosa. Incontrò Josef, un brav’uomo dell’età di suo padre che viveva dei doni della terra e amava dipingere. Si sposarono. Li avrebbe uniti un affetto sincero comunicato attraverso i linguaggi della poesia e dell’arte. Scarne parole, tenerezze misurate, sorrisi complici, tutto quello che Christine non ricordava di aver mai avuto prima. Senza accorgersene, il suo bisogno di chiamare a sé Dio non ebbe più l’urgenza di prima. Nella casa in cui viveva con Josef aveva uno studiolo tutto suo per scrivere. Nella stanza a fianco, il marito dipingeva con assiduità ogni giorno. Christine faceva lo stesso con la scrittura, china sulle pagine che si infittivano di versi e racconti impregnati di tutto quello che aveva osservato e sentito fino a quel momento. A guerra finita si trovò pronta a mostrare il suo lavoro a un pubblico. Spedì le sue opere a un editore tedesco, la risposta fu positiva. All’improvviso il suo nome cominciò a diffondersi. Essere conosciuta per il lavoro di tutta una faticosa esistenza era ben cosa strana e in un certo senso la imbarazzava. Si accorse che non era ciò che avrebbe voluto.
Un piccolo comune della Carinzia la invitò a tenere una lettura pubblica. Ci sarebbero state domande da parte dei lettori che l’avevano scoperta e ne avevano decretato il riconoscimento. Le avrebbero posto questioni personali, forse sarebbero stati interessati a conoscere i motivi che l’avevano spinta a scrivere nel modo in cui scriveva e i temi ricorrenti dei quali scriveva. Cosa avrebbe potuto rispondere? Christine era impaurita. Si muoveva con passo incerto avanti e indietro nel suo studio, fumando una sigaretta dietro l’altra. Aveva già acconsentito a partecipare. Se si fosse inventata una scusa a pochi giorni dall’incontro, non avrebbe fatto altro che alimentare le infinite voci che circolavano circa le sue stranezze. No, ci sarebbe andata. Quali erano poi queste stranezze? L’aver sperato di continuo in una visita di Dio? Mentre si poneva questa domanda, gli occhi di Christine si posarono su una vecchia edizione delle poesie di Rilke. Di colpo fu come strappata dai suoi timori e gettata nel remoto ricordo di una fredda stanza di ospedale. Aveva sei anni, era appena sopravvissuta all’ennesima infezione ai polmoni e stava per essere dimessa. Il medico che l’aveva curata si era presentato da lei prima che tornasse a casa e dopo averle accarezzato la guancia, le aveva messo in mano quel libro che lei ora osservava stranita. Erano state le poesie di Rilke raccolte in quel volume a trasmetterle l’euforia della lettura. Erano stati quei versi a spingerla a scrivere. Tutto ciò che lei aveva vissuto come fede aveva avuto inizio dal dono di quel medico di cui ora non ricordava né il nome né il volto. Era troppo piccola e troppo debole per preservare traccia di quel momento nella sua testa. Eppure, tutto era cominciato da lì. Un risolino le sfuggì dalle labbra socchiuse. Forse la visita che aveva atteso una vita intera c’era poi stata. O forse no, chissà. Scacciato questo pensiero, dissolte le paure per la lettura pubblica, prese con sé il volume di Rilke e uscì dallo studio.