Se la Kiki di Hayao Miyazaki arriva in una città di mare a bordo della sua scopa e con la sola compagnia del gatto Jiji, la Lisa di Fausta Cialente ne Il vento sulla sabbia non ha più altra compagnia se non quella di sé stessa mentre attraversa il Mediterraneo su un traghetto italiano. Approdano, accecate dal blu, in un Paese straniero e ostile nei suoi abitanti ma avvolgente di caldo e salsedine. A entrambe è concesso di essere spettatrici di retroscena umani, capitate per caso sulla soglia di porte socchiuse: alla giovane strega verrà assegnata la scena della panettiera Osono che rincorre una donna per ridarle il ciuccio del suo bambino, a Lisa di sostare in una nicchia profumata di gigli e ascoltare Frida discutere col marito sull’ambigua posizione di un’altra donna. Entrambe sono parziali, con pregiudizi e antipatie che le rendono dubbiose.
Abito in una città che porta con sé da tempi antichi il vessillo di “rupe ventosa”, è un posto comandato, modellato dal vento, dove si vive e si muore per lui o con lui. I marinai obbediscono ai suoi ordini, i fine settimana all’aperto sono spesso danneggiati dalla sua violenza, la sabbia si alza in vortici pungenti per entrare negli occhi e nei costumi da bagno, increspa il mare rendendolo solido e cattivo. È una città da cui si va via e a cui si ritorna per restare o alla quale non si ritorna mai più. Quando eravamo liceali sognavamo le grandi città, il caos vivido delle metropolitane, di vie straripanti e feste memorabili; volevamo andare per diventare grandi, come Kiki, per conoscere i sacrifici dell’indipendenza o scoprirci altro, forse completamente diversi da quello che eravamo stati fino a quel momento: proiezioni delle nostre famiglie asfittiche o disattente, modellati anche noi come la sabbia dal vento. Ragazzi fatti a immagine e somiglianza di pensieri immutati da sempre: respirati e cresciuti in noi come erba infestante. Io volevo un aereo a dieci anni. Vivevo come tante famiglie la bidimensionalitá di un genitore che parte e di altri che lo attendono: non voglio rosari indiani, borse con scritto i love new york, io desidero guardare. Oh, Kiki, portami via con te. Trasporta anche me in terre lontane, fammi vedere la miseria e la bellezza fulgida che il mondo ignora, cosicché io possa dimenticare le patetiche urla di gruppi sociali da disgregare.
Sono scissa in due come Lisa, invidiabile Lisa. Nessun bagaglio di voci e volti da tollerare, lei, niente che la leghi a destini condivisi prima che li si recida per sempre. Sto a Sud ed è una vita illuminata da pochi bagliori, mi sento comoda e accesa di ribellione, impetuosa come il mare; sto a Nord e l’aria è pesante, pesanti i capelli, diversi e placidi i modi della gente, luminosi i buongiorno e appagate le notti.
La provincia dà e toglie. Un’immagine ergo a cattedrale della mia conflittualità: il cielo plumbeo che cade come acciaio fuso sui campi dorati, il contrasto del gretto urbanistico nelle periferie col perfetto naturale. Strade tortuose invase dall’erba selvaggia attraversano colline tonde come seni di madri, si inerpicano su alture, dormono ai piedi di paesi millenari solcati dai passi dei templari. Avevo una migliore amica che su una di queste strade poco illuminate ha perso la vita a diciassette anni, non ha mai avuto il tempo di scegliere una facoltà o una città, lei; probabilmente sarebbe rimasta qui, come me. In foto ci somigliavamo. La sua emoticon preferita era “u.u”, perché non sapeva dire no ai corteggiatori, non sapeva respingerli, allora poggiava la matita sul labbro superiore, guardava la professoressa di francese col caschetto sudicio e mi ordinava di rispondere al posto suo: “scrivi u.u.” Come se fosse la cosa più seria del mondo.
La mattina prima di entrare amavamo camminare da sole fino al panificio per prendere i calzoni fritti, a volte li mangiavamo sedute sotto il canestro rotto della piazza nel quartiere. Quello che non sapeva – che non sapevo nemmeno io – era che lei stessa fosse il quartiere. Per questo l’amavo e la respingevo. Lei, con le ballerine di plastica scadente, che non gli si ribellava, anzi lo accoglieva come una ricchezza. Io e la strada ceduta sotto l’alluvione come burro, le scarpe nuove (non mi piacevano mai più di quelle delle altre), sporche di fango per aver attraversato le macerie. E lei rideva, come rideva. Il pranzo a base di patatine e hot dog prima di tornare a scuola:
“Ma tu vuoi andartene?”
“Andarmene per fare cosa? Sgobbare a Milano per pagarmi un tugurio?”
Le sue maglie lunghe con le maniche a pipistrello, le dita lunghe e lo smalto azzurro, i ragazzi in motorino coi capelli leccati dal gel e parcheggiati sotto al cinema il sabato sera. Noi, insieme, al compleanno della più ricca che lancia gli indumenti dal letto alla cabina armadio, che litiga col fratello e poi si prendono a calci come se fossero bestie, lei che mi guarda e dice: “oh, vabbè, andiamo su”. Tutto veniva maciullato e messo da parte dalla sua memoria, tutto veniva accettato come parte di qualcosa di inevitabile.
“Ma come fai, oh? Come fai a chiudere il sipario così sulle cose?”
“Tu non capisci che siamo come il vento, vivi o morti, qui o altrove, tu parli come se dovessi scegliere, ma non devi, non dovrai mai”.
Io mica lo sapevo, che si poteva essere scissi, o forse interi a fasi alterne. Ora che ho due posti so che la mia amica aveva ragione. Cialente che visse in Egitto, Italia, Inghilterra, conosce l’alterità come modus operandi, è per questo che scrive di una diciottenne che non sa bene quello che arriverà, chi amerà, dove sarà, e tuttavia vive la straordinaria esperienza di uscire fuori dai ranghi, dalla famiglia, di trasformare il passato dell’infanzia con la gioia e la vita, folgorante, dei luoghi che creano ricordi. Lisa ha la definitività perentoria della giovinezza: “non mi piace il fascismo”; ha una tale sicurezza in se stessa che non sente di avere “neanche un millimetro in meno” davanti a un ricco spasimante. Questo è quello che noi due non volevamo perdere nel passaggio dall’adolescenza alla vita adulta.
Lisa e Kiki la strega sognavano in anni lontani vestiti nuovi e belle scarpe, proprio come noi, ragazze e ragazzi che si mescolavano nei bus del duemiladieci, e una storia diversa era così lontana. Non ho un gatto nero come coscienza e neppure una scopa volante, ma sento nei luoghi in cui sono nata, quando li attraverso da sola e in silenzio, una magia che mi scorre nelle vene perché sento di possedere un pugno di stelle, piccolo, in mano; eppure lui non possiede me. Voglio le signore dell’est a mangiare i semi di zucca in spiaggia, le storie delle nonne che si abbronzavano con la birra, il profumo dello shampoo alla pesca tornati dal mare mentre si fa la doccia con la pompa che annaffia l’orto, i piedi sul cemento grezzo, le spiagge deserte da trovare come tesori nascosti. Amica di un tempo, le voglio ancora queste cose, ma mi sento libera su traghetti aerei treni, ancor di più a piedi perdendomi fra migliaia di sconosciuti, e poi penso al vento che scrive e cancella. Sento di fare pace con tutti i miei capitoli se, come successe a Lisa, anche in me esplode la sensazione di aver chiuso un libro che non deve essere mai più riaperto. E mi viene da dire, come una salvezza ogni volta che le brutture sono troppe: “oh, vabbè, andiamo su”.
Fausta Cialente, Il vento sulla sabbia, Nottetempo 2023