Finché morte non vi separi

di Lara Carbonara

Ora lo sposo può baciare la sposa.
I rami che sfiorano l’altare si muovono, la corteccia increspata in nodi robusti sembra più sensuale. E poi le mani si sollevano gonfie di entusiasmo, il boato dopo il bacio, i sorrisi, gli abbracci, i volti incastrati in una smorfia persistente di felicità.
Il vialetto che porta allo scrittoio adibito ad altare è cosparso di petali di camelie bianche. Tra i rami che incorniciano la scena, piccole lanterne pronte ad accendersi.  In quella terra polverosa e argillosa il verde è profondo e carnoso e profuma di pino selvatico. I soffioni rimangono alti e immobili ad aspettare aliti di vento, aghi di pino e pietre ricoprono la terra scura della pineta. Ogni tanto si sarebbero impigliati ai vestiti lunghi della festa, invischiati come le parole nei proverbi.
Lei abbandona la massa acclamante si dice che è arrivato il momento di defilarsi, per lasciare che il tempo passi più velocemente possibile. Sembra non arrivi mai la fine. Cerca un bicchiere di vino e un posto lontano. Trascina una sedia sul prato, si toglie le scarpe per riposare i piedi nell’erba. Accende una sigaretta e finalmente sente il cuore rallentare.
Il piazzale è grande, pietra bianca circondata da succulenti fichi d’india schierati come in un sirtaki. Qualche bambino rimane sempre affascinato dai movimenti del casaro e rimane a lungo dietro l’angolo dei formaggi a meravigliarsi davanti a una sorta di rito del Meridione, la grande Mozzarella che tutti ci invidiano.
Le cosce di fuori e i fiori all’occhiello, i tacchi scomodi e i capelli buttati all’indietro, le spalle che si scoprono  e le cravatte che si allentano, i piedi che si scalzano e le giacche che volano, i calici che riempiono bocche sorridenti, le facce in posa che poi si ritrovano sparse ed esposte a fine serata; i passi intenti a seguire la musica che suona sotto l’arco acceso di luminarie, gli occhi che si guardano, i fianchi che si inseguono prima nevrotici poi esasperati, poi lenti, e ancora l’ecatombe delle mosse da seguire, un passo avanti e due indietro, i fuori tempo, i fuori luogo, i fuori fase.
Lui suona la viola fissandola da sotto gli occhiali scuri, il suo respiro è quello delle corde pizzicate, una dopo l’altra in un abbraccio. Lui si appoggia agli accordi e lei sente il trambusto delle tavolate che le donne di tutto il vicinato preparavano nelle viuzze i giorni di festa. Lui evoca e lei ricorda il caldo delle estati bambine, quando le portava l’orzata con la cannuccia gialla, perché da quella verde doveva bere lui; quando decidevano di andare a vedere i pescatori partire di notte, con le lanterne e i pantaloni arrotolati; i taralli appena sfornati che lui le portava tutto sudato; l’arco Pinto sotto cui si riparavano quando pioveva, le gare di orientamento perse nella città vecchia, nessuno poteva batterlo, conosceva tutto del microcosmo in cui vivevano.
La band fa una pausa, Lui stringe due bicchieri di vino, si avvicina al suo tavolo. Lo guarda arrivare, gli sorride a lungo, gli prepara la sedia di fronte. Lui annusa l’aria prima di sedersi.
“Lo senti?”
“Cosa dovrei sentire?”
Lei si guarda le mani, le braccia abbronzate, le caviglie non ancora gonfie, si chiede se abbia qualcosa fuori posto. Le viene da sorridere. Nota un filo sull’orlo della gonna, cerca di nasconderlo con i piedi.
“Non hai mai indovinato i miei pensieri, tu, non sei cambiata affatto”. Le porge un bicchiere di vino. “Allora, raccontami. Raccontami cosa hai fatto per tutto questo tempo”.
Lei guarda suo marito in lontananza riempire i bicchieri per brindare con lo sposo, l’affetto nel tono alto dei meridionali, abbracci, fotografie, sorrisi e ancora abbracci, fotografie e sorrisi. Il pacchetto di sigarette è vuoto e lo guarda. Lui ne prende una dal suo taschino, la porta alle labbra. La inumidisce facendola passare da un angolo all’altro della bocca e la accende. Aspira profondamente e gliela offre. Spinge il polpastrello sulle sue labbra mentre le infila la sigaretta in bocca. Sente le narici vibrare debolmente. Abbassa le dita percorrendole la gola, la sente deglutire. Si abbassa leggero, affonda il viso nel suo orecchio: “Ricordi? Abbiamo fumato insieme la prima volta. Sono stato io ad accendertela”.
“Ti prego, sei proprio stronzo. Neanche tu sei cambiato affatto”. Si guarda di nuovo le mani, le braccia abbronzate, le caviglie, il filo nascosto.
“Ti ricordi Nanuccio?”  Sposta la sedia per sedersi accanto a lei.
“Chi?” Un sorriso leggero, sente il sudore sulla spalla.
“Nanuccio. Non ricordi? Il naso rosso, i baffi che nascondevano tutto, i capelli unti e la canottiera con le bretelle. E con quel pancione che quasi non gli permetteva di manovrare il volante. Arrivava nella città vecchia gridando gelatiii con un tre ruote che a momenti veniva giù”.
“E il figlio dietro a mantenere un frigorifero quasi arrugginito, in bilico non si sa come. La canottiera sporca, i piedi nudi, sporchi. Non si sapeva come facesse a reggersi, tanto era magro”.
“E tutti i bambini uscivano dalle case come le cavallette quando fa caldo”.
“Vuoi fare il poeta ora?”
“Ti ricordi quando venivo a chiamarti per portarti il gelato al limone? Non uscivi mai in fretta come tutti noi. Non ti sei mai mischiata al gregge”.
“Adesso basta smettiamola di torturarci. Cosa vuoi da me? Torna a suonare”.
Si aggiusta i capelli e si morde il labbro mentre cerca un’altra sigaretta. Non sorride più.
“Si è più felici quando si è piccoli”.
“Certo, da piccoli si sa quello che si vuole. Quando si cresce no. Guardaci, traballanti come il tre ruote di Nanuccio, con frammenti delle nostre certezze perse chissà dove”.
“Ma tu ti mordi il labbro come allora”.
Lui si allunga per raccogliere l’orlo della gonna. Le sfiora le gambe. Lei non si muove.
“Ti ricordi quando ci nascondemmo insieme in una stradina mentre giocavamo a nascondino? Io dietro di te, tu a guardare che ci scoprissero. La tua spalla era a un soffio dalla mia bocca. Siamo stati così vicini che non riesco a crederci. Eravamo bravissimi a nascondino, in quelle strade così strette, col profumo di focaccia della domenica mattina, potrei disegnartele a occhi chiusi.
“Gesù, cosa vuoi da me? Hai bevuto troppo. È solo un matrimonio, il gran rientro da dovunque si sia finiti”.
“Dove sei finita tu?”
“In una strada senza uscita”.
Un invitato si alza con un bicchiere in mano, un passo dopo l’altro grida al brindisi, all’amore, la sposa sorride imbarazzata ma poi si divertono, si baciano, fanno un grande cerchio intorno agli sposi, li prendono in braccio, li fanno incontrare a mezz’aria. Si ingrassa la festa tra dolci e slanci delle ragazze che leggono nel bouquet della sposa le promesse future.
Poi, piano piano le luci si abbassano, i palloncini scoppiano tra le corse dei bambini, un ultimo sguardo. “Sono contento di averti rivisto. Solo per stasera, abbracciamoci, come facevamo da piccoli, resta ancora nascosta come allora”. Le poggia i polpastrelli sulla nuca, li fa scivolare lungo la schiena scoperta, finge di suonare la sua viola. Lei chiude gli occhi, solleva il bicchiere e beve il suo vino caldo.
Lui accende il motore. Senza fretta esce in retromarcia dal parcheggio, cambia marcia, si immette sul vialetto. Poi rallenta un attimo, guarda attraverso il finestrino verso di lei. Alza la mano dal volante, forse per salutare o forse per dirle qualcosa.
Lo guarda cambiare idea. Si appoggia al muretto bianco, sfila le scarpe, stringe il braccio di suo marito, e si avvia verso la macchina.

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