Il potere commerciale dell’empatia negativa

di Edoardo Poli

Se dovessi cominciare a declamare, con una cadenza pontina, “Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio” penso che i vostri neuroni specchio si attiverebbero e che più di qualche cuore sobbalzerebbe, anticipando già quello che verrà – sia chiaro, non per merito mio e della mia voce alla Vittorio Gassman quanto per la bellezza straordinaria del testo di Montale.
Un altro esempio: siamo in una delle scene clou del Re Leone, Mufasa è aggrappato con l’ultima unghia a una roccia che lo divide dalla mandria che cieca corre dabbasso. Scar, dopo aver udito il richiamo del fratello, si avvicina e artiglia le sue zampe, sussurrando: “Lunga vita al re”, lasciandolo e proiettandolo così verso la notte certa. Credo tutti, molti sicuramente, hanno impressa la scena perché è dolorosa, uno dei maggiori topoi della letteratura – l’uccisione del padre.
Così capita di avvertire dolore, rabbia, gioia, letizia, godimento quando leggiamo un testo o vediamo un film o guardiano un’opera d’arte: è grazie a qualcosa che chiamiamo empatia. In parole povere, si tratta di sentite ciò che l’altro sente, in uno stato che si potrebbe definire fusionale.

È stata riscontrata, recentemente, un’eccessiva attenzione a questo meccanismo vòlto a creare empatia in modo facile, così da poter permettere una più semplice identificazione con il protagonista della storia e con l’ambientazione. Un esempio è forse la protagonista di La vita intima, che scopriamo aver subìto da quando era ragazzina delle violenze e dei traumi che l’hanno portata a sviluppare determinati comportamenti. Oppure, le storie di Lila e Lenù ne L’amica geniale, che presentano un ambiente tossico: è quasi impossibile non provare rabbia e risentimento quando Lila si rivolta contro i Solara, oppure grande tristezza nel vedere Lenù posseduta da Donato, alla ricerca di una passione che possa smuovere un animo tormentato dall’ambizione e dall’invidia per la più gettonata amica.
Sembra quasi diventato un dovere inserire nelle storie degli elementi che favoriscano l’empatia, perlopiù positiva, in modo da creare una connessione stabile con il proprio pubblico: storie in prima persona, il background sfavorevole, malattie o incidenti che sfavoriscono il personaggio principale, la grande quantità di dettagli psicologici e contestuali, ecc.

Esiste però anche una versione negativa di questa empatia, che ci porta invece a immedesimarci con dei personaggi negativi che veicolano dei valori che non rispecchiano assolutamente quello che la società pretende da noi. Frollo ne Il gobbo di Notre Dame, Ivan ne I fratelli Karamazov, Bel-Ami di Moupassant, Raskolnikov in Delitto e Castigo, Dracula di Bram Stoker nella versione di Coppola e tanti altri.
Tutti abbiamo pensato, almeno una volta, che i cattivi abbiano più fascino dei buoni, perché intrinsecamente più complessi del solito eroe manicheo per cui tutto deve essere giusto e retto. La sfumatura del grigio, il compromesso con il proprio lato oscuro ci hanno sempre attirato, così come il Macbeth o l’Amleto di Shakespeare, il Mefistofele di Goethe – chi non ha sperato per un attimo che Faust cedesse all’Attimo?
È vero che anche sull’empatia negativa si sta lavorando molto a livello di produzione televisiva – basti vedere sui cataloghi delle piattaforme di streaming quante serie sono incentrate su personaggi negativi o quantomeno oscuri. Un esempio è il Joker interpretato da Joaquin Phoenix o la Harley Quinn di Margot Robbie, che vantano numerose imitazioni, spesso anche pericolose.

La negatività attrae perché permette di andare contro l’ordine stabilito, di compiere atti che normalmente sono repressi ma che si celano nella nostra esistenza; più filosoficamente è il motore che permette di fare sì che esista l’individuo piuttosto che una massa informe positiva, aderente al mondo. Più letterariamente, permette di esplorare luoghi tabù dell’animo umano, laddove le contraddizioni albergano senza avere alcuna valvola di sfogo.
Letteratura dunque come contrario della passività, dove un’altra vita viene vissuta o quantomeno sentita senza però che abbia necessariamente delle conseguenze nel mondo “reale”. Un’esperienza che già Aristotele aveva definito catartica; arte che permette il transito di emozioni forti, socialmente instabili ma necessarie a un “sano” modo di essere al mondo.

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