Pascal non doveva essere a bordo di quella nave. Solo un anno prima era intento a scrivere il suo secondo romanzo. Al mattino era a scuola e raccontava le vite e il pensiero dei grandi filosofi a una classe attenta di adolescenti. Una volta preparate le lezioni per i giorni successivi, Pascal dedicava il resto del pomeriggio alla stesura del libro. Spesso saltava la cena senza rendersene conto e soltanto quando fuori dalle finestre del suo piccolo rifugio parigino il buio si faceva fitto, si accorgeva che era giunta l’ora di coricarsi. Pascal non aveva ancora compiuto trent’anni. La sua vita fin lì, era stata un sentiero percorso con forza, dedito al mondo e alla ricerca personale. Nascere in un’antica famiglia della nobiltà belga gli aveva regalato il privilegio di poter scegliere più in fretta degli altri. Dopo i collegi e i primi viaggi di studio, Pascal decise che il suo futuro sarebbe stata la filosofia e con l’entusiasmo inesauribile della giovinezza, si trasferì a Parigi per frequentare l’università. Il suo retaggio gli avrebbe garantito un futuro luminoso, eminenti diplomatici e scienziati vincitori del Nobel non mancavano tra le fila del casato al quale apparteneva. Pascal scelse altro. Pascal scelse gli ultimi. Terminati gli studi raggiunse il Nordafrica al seguito di una associazione umanitaria francese, trascorrendo mesi nelle miserevoli periferie di metropoli rumorose e colorate. Grazie al talento per l’apprendimento delle lingue manifestato fin dalla fanciullezza, Pascal insegnava a leggere e scrivere in arabo ai bambini delle baraccopoli in cui si fermavano i volontari coi quali si muoveva, improvvisando scuole all’aperto o in edifici diroccati per tutti quelli che studiare non se lo potevano permettere per via di una povertà priva di soluzione. Rientrato a Parigi, pubblicato un primo romanzo accolto con favore, Pascal si impiegò come insegnante di filosofia in una scuola alla periferia della capitale. Un secondo libro lo aveva già in testa, avrebbe raccontato la gioia ferina degli amori notturni nei suoi anni universitari e lo avrebbe fatto mescolando ricordi ancor freschi e riflessioni esistenziali. Il suo sorriso contagioso e la sua vitalità fuori del comune non avevano freni, conferendo una luce particolare a ogni istante di giorni che apparivano generosi. Una sera, mentre era assorbito dalla scrittura, il suo corpo ebbe un sussulto improvviso e poi un blocco. Il braccio destro aveva smesso improvvisamente di obbedire alla mente, la penna tremolava penzolando tra le dita della mano. Ci fu una interminabile sospensione del tempo. Poi senza preavviso tutto riprese come prima. La penna di nuovo ben salda nella mano terminò il capoverso abbandonato a metà. Soltanto poche gocce di sudore cascate sulla scrivania dalla fronte di Pascal stavano lì a indicare che qualcosa era accaduto. Prese appuntamento dal suo dottore pochi giorni più tardi. Mentre sedeva nella sala d’aspetto del medico, si immerse nei suoi pensieri. Preso dalla scrittura non aveva fatto caso che negli ultimi tempi aveva saltato troppe volte i pasti. Aveva perso peso, solo ora sfiorando il torace sotto la camicia se n’era accorto. Poteva toccare il costato e la sua pelle sembrava bagnata in continuazione. Venne il suo turno. Fece degli esami. Arrivò la diagnosi. Aveva l’Aids, era il 1992.
Pascal accantonò la stesura del romanzo. La sua testa era in preda a una tempesta di sensazioni. Di colpo il domani svanì dall’orizzonte dei suoi occhi, senza però rubare le fiamme appassionate che vi albergavano fin da quando era un bambino. Si ricordò di un incontro in Egitto con un uomo molto anziano dal volto mite. Sei profondamente religioso, ragazzo mio. Sei un uomo religioso che non crede in Dio. Così gli disse il vecchio egiziano, o forse ricordava male, forse si trattava della frase di un libro che aveva letto nei mesi trascorsi a far volontariato all’estero. Ora gli era impossibile risalire all’origine di quelle parole, chiunque avrebbe potuto pronunciarle e in qualunque lingua, un uomo in carne e ossa o il personaggio di un storia inventata. Certo quella descrizione gli calzava a pennello, sì Pascal era esattamente così, il ragazzo nutrito da una imperiosa tensione religiosa che non contemplava la presenza di una qualsiasi forma del divino. Se la realtà e il sacro non si limitavano a sfiorarsi, occorreva esplorarne ogni piega per rigenerare se stessi. Il viaggio si era sempre rivelato il mezzo più autentico per quella esplorazione e il fine per ogni nuova vita. Il Fort Saint-Charles era un mercantile adibito al trasporto delle banane tra la Francia e le Antille. Solo raramente questo tipo di imbarcazione ospitava dei passeggeri. Pascal presentò domanda di imbarco. All’alba di un giorno di maggio la nave salpò dalla costa francese con a bordo una manciata di passeggeri. Pascal era tra loro, portava con sé una scorta di matite e quaderni per raccontare quell’ultimo tratto verso una sconosciuta, altra vita. Il suo sarebbe stato un singolare diario di bordo. Avrebbe documentato ciò che i suoi occhi scrutavano oltre gli orizzonti che gli si paravano davanti. Soprattutto, avrebbe scandagliato i suoi labirinti interiori come mai aveva anche soltanto pensato di fare prima. Vi avrebbe riversato tutta la sua abilità nella speculazione filosofica e l’avrebbe agganciata alla sua esperienza, quella che stava per terminare e quella che sarebbe cominciata dopo. Non si trattava di fare sermoni o di cercare risposte. Era un giovane condannato a morire presto e accoglieva la fine con sobrietà. Pascal aveva imparato che il solo pensiero filosofico di valore era quello che scaturiva dal basso, dalla nuda sperimentazione quotidiana. Solo così il filosofare era in grado di sfiorare le vette dell’esistenza accomunando ogni essere umano, donando un senso alla vita di ciascuno. Ben diversa era la speculazione che calava dall’alto e imbrigliava l’essere, condannandolo a una asfittica galera. Questa acuta consapevolezza rendeva Pascal libero di scrivere. Il viaggio a bordo di quel cargo sospendeva il tempo della fine, registrava i cambiamenti di un corpo sempre più scarnificato e quelli di uno spirito che si irrobustiva di luce e allontanava a suon di domande la rabbia, la disperazione e la tentazione di gettarsi nell’oceano per sparire senza lasciare traccia. A differenza di Rimbaud che aveva lasciato tutto, scrittura per prima, accecato dall’impossibile, Pascal non si era perduto. La scrittura mai abbandonata si era fatta asserzione piena del suo cammino e incarnazione della possibilità di un nuovo mistero. Al rientro in Francia dopo quel lungo viaggio, Pascal mise ordine nelle molte pagine che aveva riempito durante la navigazione. Cargo Vie, il suo libro testimonianza, uscì pochi mesi dopo. Le reazioni non si fecero attendere, accoglienza e rifiuto si alternarono con furia, incapaci di venire a patti con un testo che non assomigliava a nessun altro. Al principio, Pascal partecipò ai dibattiti che il libro stava generando. Dell’Aids diceva che fosse una strana esplosione in grado di far scoppiare i timpani solo a chi ne era affetto. Poi, sempre più debilitato dalla malattia, si ritirò per morire tra le braccia di coloro che l’amavano, con la speranza che il rumore assordante di quella esplosione potesse alla fine essere udito anche da quelli che si ostinavano a restare sordi.