L’inquinamento acustico di treni che fischiano e persone che sbuffano – o forse era il contrario? – si mescola a odori provenienti dalle sostanze di scarto. Locomotive che sfiatano e passanti dalla vescica pesante, la brutale prepotenza di quei neon striduli che feriscono occhi già stanchi con la stessa affilata luce bianca delle corsie di un ospedale o di un supermercato. Del resto, consumare consuma e basta poco per passare da consumatori a consumati. E poi, anche nel supermercato dove fa la spesa lei indossano una divisa bianca.
Ma che c’era in quel caffè?
Freddo. La banchina sembra uno dei gironi dell’Inferno dantesco. L’umidità si è solidificata a formare una diabolica patina gelata. La linea gialla, spartiacque tra l’uomo e la macchina, è una sirena che invita a farla finita con quell’alienante routine. Un passo in più ed è fatta. La sua eroina l’ha fatto per amore, perché non farlo per noia? Alla fine quella linea non è altro che una metafora dell’esistenza. Una manciata di centimetri divide la vita dalla morte. Un istante. Un pensiero. Anzi, l’esistenza stessa è quella linea: un segmento dritto che corre sempre uguale con un inizio e una fine repentini, senza alcuna possibilità di cambiamento, costretto in uno stampo predefinito. L’alito disegna nuvole di fumo per poi perdersi nell’aria. Le persone sembrano tante piccole ciminiere, dannose ma necessarie creature. Ma necessarie per chi? Mentre il pallino arancione sul tabellone lampeggia, queste elucubrazioni le affollano la mente, provata da troppe sveglie prima dell’alba. E quello non arriva. Annunciato dalla consueta voce metallica, si fa attendere. Un’altra metafora della vita. Le promesse non mantenute. Le aspettative deluse. Le attese interminabili. Di fianco a lei, un gruppo di ragazzine delle superiori batte i piedi per scaldarsi. Capelli al vento, eco-pellicce striminzite e caviglie scoperte. L’apparenza che prende il sopravvento sul benessere. L’omologazione scalza l’individualità. Rispettare le mode è più importante che evitare la bronchite. Vale la pena di patire il freddo per ricevere uno sguardo lusinghiero dai compagni di scuola. Tremare su quella banchina le fa sentire grandi. Si sono alzate con un’ora di anticipo per truccarsi meticolosamente. Spesse linee di eyeliner sopra a chili di mascara. Diversi strati di fondotinta a coprire quei brufoli ormonali che non devono tradirne l’età. Labbra scure e disegnate tra cui fa capolino una sigaretta. Per sentirsi grandi. Tutte uguali, si sentono diverse. Sole con se stesse, si muovono in branco per sentirsi forti. Un rombo. Notare che il rumore dei treni passeggeri è lo stesso dei treni merci. Del resto, c’è forse differenza? Merci animate, automi dotati di anima, il cui scopo è quello di muovere denaro. Lei stessa ne è un esempio. 200 kilometri al giorno per lavorare sottopagata. 200 kilometri al giorno per frequentare un’università che costa quanto un quinto del reddito complessivo della sua famiglia. Un investimento. I suoi hanno puntato su di lei come su un cavallo da corsa. L’orgoglio della famiglia. Il riscatto delle generazioni che compongono quel sangue, mescolato e rimescolato, che le scorre nelle vene, unendo continenti e popoli. Chissà se i suoi si immaginano la sua brillante carriera futura mentre sudano in fabbrica. Chissà se l’avrà mai, lei, una carriera. Quantomeno opaca.
In un attimo i pendolari si avventano sulle entrate come i leoni sull’antilope. Formiche accaldate spalancano le porte, che stridono come saracinesche di un magazzino, ed escono dal formicaio cedendo il posto ai loro simili intirizziti. Ogni volta è come passare dal Polo Nord alla Foresta Amazzonica. Il gelo cede il passo a un caldo subtropicale. Le scorte di ossigeno diminuiranno a mano che il formicaio avanzerà, riempiendosi, fino a che non ci sarà più spazio vitale, fino a che le formiche si trasformeranno in appendiabiti umani, assiepati a mo’ di sardine. Eppure, nessuno oserà lamentarsi, se non con discreti sbuffi e mute maledizioni, pronunciate tra sé e sé. Nessuno oserà lamentarsi perché quel supplizio è necessario. E così, sarà con celere deferenza che le ubbidienti formiche mostreranno il proprio “titolo di viaggio”, come recita quella voce metallica che di tanto in tanto li sveglierà dai loro sonni inquieti, all’autorità del caso. Autorità che di autorevole non ha altro che un berretto liso e che di fatto condivide la loro sorte raminga di gitani “by necessity if not by choice”, per citare il tale poeta irlandese che sta studiando. Nel formicaio ci sono ancora posti, che fortuna. Sedili unticci che hanno conosciuto innumerevoli posteriori, di ogni genere, età, classe, peso ed etnia. Nessuno è più cosmopolita, gender-free e democratico di quei sedili. Da decenni sopportano mitemente qualsiasi culo. Studenti isterici in preda all’ansia pre-esame, bambini iperattivi, pantaloni da muratore inzaccherati di calce, immacolati completi di Boggi e coppiette intente a pomiciare. Per loro, forse, il viaggio assume un significato diverso. Svegliarsi creature sole e frammentate e ritrovare la propria interezza su quel mezzo. Due metà dello stesso corpo. Due metà della stessa anima. Come insegna Pla…
Una borsa la colpisce dritto in faccia. Una signora ben vestita passa mietendo vittime con la sua Louis Vuitton. Ogni volta un tonfo. Ogni volta uno sguardo incredulo. Ogni volta la consapevolezza di poter evitare quel gesto importuno semplicemente tenendo la preziosa sposta-cose in mano piuttosto che sulla spalla. Sul suo volto la soddisfazione di aver recato danno alle altre formiche. Perché, seppur griffata, è una formica anche lei e questo proprio non le va giù. Fa quella vita da anni e non può trasferirsi, perché il marito, che guadagna il doppio di lei, lavora in un’altra città. Marito che a letto, mentre lei, girata dall’altra parte, maledice la propria vita, chatta su Tinder, per poi cercare perdono con le Louis Vuitton. Ma è facile dimenticare le proprie frustrazioni quando le si può sfogare sugli altri. La sofferenza dei propri simili procura un piacere perverso all’uomo-formica. Fai soffrire il prossimo tuo come te stesso.
Al di là del vetro sporco il paesaggio scorre veloce come la vita. Panta rei e le case si avvicendano ai campi come in un sogno allucinogeno. I cartelli delle stazioni emergono dalla nebbia padana come spettri da un altro mondo. Chissà se ci sono formiche anche lì. Eppure, guardando fuori dal finestrino, quella traversata quotidiana riesce ancora ad assumere il sapore del viaggio. Nel bene e nel male ogni giorno è una nuova avventura. È buffo come per sfuggire alla claustrofobia della provincia sia necessario subire l’ancor più claustrofobica reclusione nel formicaio. Ma per lo smog della metropoli si fa questo e altro. Qualità dell’aria: pessima. Respirate a pieni polmoni!
E via con un’altra interruzione. Agli sguardi indiscreti si fa rapidamente l’abitudine. Non tutti si chiudono in se stessi e iniziano a fare voli pindarici come lei. L’uomo è un animale sociale, dicono. E quale modo migliore di ingannare il tempo se non fissare gli altri passeggeri e, se qualcuno risulta particolarmente curioso, attaccare bottone? Di approcci ormai ne ha collezionati tanti. Alcuni perfino piacevoli. Se un anziano signore vi dice che siete un angelo potete forse arrabbiarvi? Altri non proprio entusiasmanti, ma pur sempre tollerabili. È nel DNA del provinciale poco abituato a spostarsi cercare conferme in chi ha fatto del pendolarismo il suo pane quotidiano. Non si capisce quale sia l’elemento distintivo – se l’espressione rassegnata, l’occhiaia pronunciata o la capacità di fare in treno ciò che il normale essere umano fa in casa – fatto sta che il viaggiatore inesperto identifica l’habitué dei binari con la sicurezza di un cane da tartufo e si precipita a porgli le domande più disparate. E, memore dei tuoi primi viaggi, vuoi non prestargli soccorso? Ma alcuni… alcuni sono davvero troppo. È il caso dell’uomo di mezza età in completo elegante, col ventre pronunciato che minaccia alacremente i bottoni di una camicia assottigliata dai troppi viaggi in lavanderia, roseo ricordo del più magro passato del latin lover che fu. Con occhi porcini e un luccichio che pare rilucere della bava che ora gli si agita in bocca, il ramingo borghesuccio di provincia, reso ai propri occhi superiore dal mediocre impiego in qualche ufficio dal nome altisonante e da un suv che si impolvera in garage in attesa dell’uscita della domenica, ti spoglia con lo sguardo come fossi uno di quegli avocado ora tanto di moda. Del resto, tu sei giovane e lui ha il cash, non potrebbe forse comprarti? Fa con gli occhi ciò che vorrebbe fare con quelle dita grassocce e non solo con quelle. Stringere, penetrare, possedere. Spogliati e sii sottomessa.
La sveglia suona. Inizia una nuova giornata. Lasciate ogni speranza voi che entrate. Vestirsi in fretta, lavarsi i denti bevendo il caffè e afferrare la borsa abbottonandosi il cappotto. Dentro quella che sarà la sua casa per le successive dodici ore. E poi precipitarsi in stazione, come un dannato in corsa verso l’inferno. Però con la vana speranza che si tratti solo del purgatorio, che le sue sofferenze verranno un giorno ricompensate. L’affanno sommato alla bronchite produce un rantolo da moribondo, mentre le riecheggia nella mente l’imperativo di non tossire perché questo la ritarderebbe. Le gambe, appesantite da una settimana di maratone metropolitane, faticano a eseguire i comandi del cervello. Cervello che a sua volta è in preda a un corto circuito. Da una parte, la speranza di riuscire ad arrivare in orario nonostante tutto. Dall’altra, il desiderio di essere in ritardo e perdere quel dannato treno per una volta. Il desiderio di rompere quel circolo vizioso. Di sottrarsi, lei, ingranaggio imperfetto, a quella macchina antropofaga. Smettere di esistere per iniziare a vivere. Quanto sarebbe bello tornare a essere padroni del proprio tempo? La vita ha le ore contate.