di Marisa Paladino
Una pietra preziosa che si rigira tra le dita, stupefatti delle sue molteplici sfaccettature. La poesia di Emily Dickinson, “la mia lettera al mondo” come da lei stessa definita, è anche questo, versi dalla materica sonorità e dalle molteplici sfumature liriche che rivelano una natura sorprendentemente originale e una singolare creatività. Lo sguardo di Emily che si poggia sul mondo è ironico e scherzoso, ma riserva sempre geografie dell’io più complesse, tra vivida immaginazione e innocente sensualità. La giovane nasce nel 1830 in un’importante famiglia di Amherst, nel Massachusetts, dalle forti tradizioni puritane, in una dimora elegante, immersa tra alberi grandi e un meraviglioso giardino. L’avita Homestead familiare, più volte venduta, affittata e riscattata, è custode negli anni dei segreti di una dinastia familiare non esente da conflitti. Emily riesce a coltivare la sua istruzione, in quanto figlia di una famiglia colta e benestante, frequenta la Amherst Academy, la sua adolescenza trascorre però in North Pleseant Street, dove i genitori si trasferiscono nel 1840. Lo studio, i sogni e le amicizie sono il doveroso nutrimento di quegli anni, Emily predilige gli studi letterari ma si appassiona anche alle scienze naturali, grazie all’insegnamento di Edward Hitchcock, teologo e geologo, che risveglia in lei l’attenzione per il mondo naturale. La futura poetessa pubblicherà nella sua vita poco meno di una decina di poesie, ne scriverà moltissime, che conserverà con diligenza, come accade anche per la fitta corrispondenza. La prima lettera è dell’aprile del 1842 al fratello Austin che si era trasferito per motivi di studio, il tono è scherzoso e le parole sembrano sorriderci, Ci manchi tanto non puoi immaginare quanto tutto sembra strano senza di te dovunque fossi c’era come un tal salve di Urrà … rivelando tutta l’originalità della sua indole. A vent’anni la giovane Emily si cimenta con giocosa leggerezza nell’arte dei valentine infatti per il San Valentino del 1850 invia a Elridge G. Bowdoin, scapolo praticante legale nello studio paterno, un biglietto dove con toni divertiti tratteggia la regola naturale dell’accoppiamento, invitando quel giovane “triste e appartato” a farsi avanti per scegliere la sua compagna tra sei fanciulle, cioè Emily e le sue amiche
Per fanciulli e damigelle follemente innamorati questa terra fu creata,
per dolcezze e per sospiri, per quell’uno che risulta da due cuori accompagnati (…)
Ciechi sono i tuoi occhi, eppure puoi vedere
sedute sopra l’albero le sei, graziose e fide;
accostati pian piano e arrampicati ardito, scorda lo spazio e il tempo, cogli la preferita!
Poi portala nel bosco, preparale un rifugio, e dalle ciò che brama, gioielli, uccelli o fiori –
porta la tromba e il piffero, rullare fa’ il tamburo-
dà il buongiorno al mondo, e in gloria va’ al sicuro!
Sono versi che fanno un po’ sorridere per la loro ingenua nitidezza, pervasi da una vivida immaginazione e di innocente sensualità, un primo tassello di quel patrimonio poetico ricchissimo, scoperto soltanto alla morte della poetessa. Se la prima edizione critica completa è del 1955 a opera di Thomas H. Johnson, i suoi scritti sono oggetto di una lunga contesa nel tempo, tra diversi curatori, mentre in Italia il progetto di una traduzione a più voci poetiche dovrà attendere l’elegante volumetto della collana I Meridiani edito nel 1997 dalla Mondadori, a cura di Marisa Bulgheroni, che contiene anche il testo in lingua originale, proprio con riferimento all’opera di Thomas H. Johnson. Nell’importante edizione italiana alle traduzioni di Nadia Campana, di Margherita Guidacci, di Silvio Raffo, di Massimo Bacigalupo, si aggiungono le versioni d’autore di Cristina Campo, Annalisa Cima, Eugenio Montale, Giovanni Giudici, Mario Luzi e Amelia Rosselli. Il ricco canzoniere è composto da ben 1775 frammenti di abbagliante singolarità poetica, che non hanno certezza di datazione e, pertanto, sono ricomponibili anche in un ordine diverso. Alla morte della Dickinson sarà la sorella minore Lavinia, detta Vinnie, a ritrovare nello scrittoio le poesie ordinate in “fascicoli” o appuntate su frammenti di carte diverse; oltre lei anche altri membri della famiglia interverranno nel riordino del ricco patrimonio letterario, con l’intento di decifrare e ricopiare, e in qualche caso anche di cancellare riferimenti ritenuti sconvenienti per il buon nome della famiglia. Wild Nights – Wild Nights!/Were I with thee/Wild Nights should be/Our luxury! ad esempio, sono versi di eloquente passionalità, per molto tempo senza un destinatario, fino a quando si è fatto il nome di Susan Huntingdon, moglie del fratello Austin, cognata e assidua lettrice delle poesie di Emily. Un articolo del New York Times, infatti, ha rivelato di pesanti correzioni, a mano di Mabel Loomis Todd amante del fratello? emerse grazie ad una tecnica spettrografica che avrebbe confermato la rimozione del nome Susan dal testo. Si è formulata, quindi, l’attendibile ipotesi di un’intensa relazione amicale, e insieme amorosa, della poetessa con la cognata Susan Gilbert, donna dall’intelletto lucido e dal carattere solare, che tutti chiamavano Sue. Senza parlare di amore “omosessuale” per ovvi retaggi culturali, questo almeno fino agli anni ’70 dello scorso secolo, anche perché nella vita della Dickinson non sono mancate relazioni sentimentali con uomini. I versi intanto riecheggiano sensuali, febbrili ed inebriati
O frenetiche notti!
Se fossi accanto a te,
queste notti frenetiche sarebbero
la nostra estasi!
Futili i venti
a un cuore in porto:
ha risposto la bussola,
ha risposto la carta.
Vogar nell’Eden!
Ah, il mare!
Se potessi ancorarmi stanotte in te!
Sarà l’amante del fratello Mabel, alquanto detestata dalla Dickinson, la co-curatrice, insieme a Thomas Wentworth Higginson, pastore unitariano e letterato molto apprezzato da Emily, a occuparsi della prima edizione dei Poems, raccolta di centoquindici poesie pubblicata il 12 novembre 1890, in un raffinato volume bianco con filetti in oro e argento. La nipote Martha e la figlia di Mabel continueranno il lavoro di riordino, in competizione tra loro, la prima insistendo nella narrazione della poetessa vestita di bianco ed isolata dal mondo per un infelice amore, ipotesi oggi alquanto superata, l’altra proseguendo nel solco materno con l’intento di mettere in evidenza, piuttosto, la modernità poetica di Emily. Parliamo, del resto, della più importante poetessa americana del XIX secolo, per successo di lettori ma anche per il privilegio conferitole dal celebre critico letterario Harold Bloom nel libro del 1994 The Western Canon, che l’ha inserita tra i ventisei autori fondatori del canone occidentale della letteratura. Una voce poetica che cresce in bellezza e maturità dopo i begli anni della giovinezza, ricchi di incontri e di eventi, cui segue il graduale isolamento nella casa paterna, complice una salute malferma, che annovera una crisi di fotofobia nel 1861 e il sopravvenire di disturbi nervosi, quindi una nefrite di difficile diagnosi che la porterà alla prematura morte a cinquantasei anni. La stanza al secondo piano e il meraviglioso giardino della casa paterna – ricomprata e ristrutturata dal padre nel 1855- costituiranno il microcosmo privilegiato degli anni più maturi, come confermano questi versi (frammento 486)
I was the slightes in the House
Ero la più minuta della casa –
avevo la stanza più piccola –
di notte la mia lucina, e il libro –
e un geranio solo (…) non potevo sopportare di vivere – a voce alta –
il baccano mi dava vergogna –
E se non fosse stato così lontano –
e qualcuno che conoscevo
doveva partire – spesso pensavo
che inavvertita – avrei potuto morire-
I trattini nella poesia dickinsoniana sono un tratto stilistico che sembra assecondare la sospensione dell’ “io lirico” che l’autrice intende trasmettere, fatto di stupore, attesa, sospiro o semplicemente ritmo, una traccia comunque utile per una più aderente lettura poetica dei versi, in continua espansione, a dispetto della solitudine scelta e testimoniata anche nel 1869 da una lettera inviata al pastore Thomas Higginson, dove Emily confesserà “io non oltrepasso mai i confini del giardino di mio padre per andare in altre case o altre città”. La poetessa declina l’invito a Boston e invita il pastore ad Amherst, tra i due il rapporto è forte e di reciproca fiducia, gli aveva scritto una prima volta il 15 aprile 1862 chiedendo un giudizio sulla sua poesia, da quel momento “La sua Allieva” e il “Il suo Gnomo”, come si firmeranno, avranno un intenso scambio epistolare che durerà fino alla morte di lei. Il pastore è stupito dall’eccentricità della giovane, le parla di poesie “fortunatamente impubblicabili” sbagliando, lei intanto gioca per incuriosire e creare stupore nell’altro, forse con questo alimentando il suo estro poetico. L’attenzione alla biografia della Dickinson, nella seconda metà del ‘900, cede intanto il passo a un più impegnativo studio critico dell’intera sua opera. Si formula anche una diversa ipotesi sulla scelta dell’isolamento. Il circostante ambiente conservatore avrebbe condizionato un eventuale matrimonio, impedendo o compromettendo di molto quella dedizione assoluta alla poesia che è l’autentica vocazione di Emily. La poetessa sceglie così di dedicarsi per intero alla scrittura, gelosa di quell’indipendenza che le consente di coltivare la sua innata qualità visionaria, in un fluire poetico molto suggestivo, nutrito di versi liberi e lettere maiuscole in libertà, usate senza necessità grammaticale, ma sull’onda di slanci e sottolineature emozionali. I suoi versi, grazie anche ad ardite metafore e potenti immagini allegoriche, respirano di pause non logiche ma di sensazioni nutrite dalla visione del momento, dove la creatività sboccia con semplicità apparente, colma invece di significati profondi e complessi. La brevità del verso, delle terzine e quartine, come il frammento e la scissione sintattica, creano nella lingua originale anche un suggestivo effetto ipnotico e cantilenante. Emily è ispirata dalla natura circostante, dalla religione, dai sentimenti universali, mentre i sentimenti dell’amore e della morte accompagnano quel viaggio introspettivo dove il sapienziale atteggiarsi si conferma bastevole dell’amicizia con i libri, la Bibbia, Shakespeare, i metafisici inglesi, Blake, Keats, Brontë, Emerson, mentre l’avventuroso intelletto spazia nell’ascolto delle creature del giardino che assume la valenza dell’intero cosmo. There is a solitude of space (frammento 1695), ad esempio, ha come tema la solitudine, una dimensione altalenante il cui centro è un’immagine di rara forza poetica, che asseconda un bisogno d’assoluto
Ha una sua solitudine lo spazio,
solitudine il mare
e solitudine la morte – eppure
tutte queste son folla
in confronto a quel punto più profondo,
segretezza polare
che è un’anima al cospetto di se stessa –
infinità finita.
La tensione tra quotidiano e regole dell’esistere è in Bloom – is Result – to meet a Flower (frammento 1058) dove si legge
Fiorire – è il fine – chi passa un fiore
con uno sguardo distratto
stenterà a sospettare
le minime circostanze
coinvolte in quel luminoso fenomeno
costruito in modo così intricato
poi offerto come una farfalla
al mezzogiorno-
Colmare il bocciolo – combattere il verme –
ottenere quanta rugiada gli spetta –
regolare il calore – eludere il vento-
sfuggire all’ape ladruncola
non deludere la natura grande
che l’attende proprio quel giorno –
essere un fiore, è profonda
responsabilità.
La tensione tra terreno e trascendente si veste di un’indomita leggerezza, altra cifra stilistica di Emily, e in This World is not Conclusion (frammento 501) ci restituisce la sua riluttanza nei confronti della religiosità puritana, la cui regola imponeva la dichiarazione pubblica che la poetessa non accettò mai di compiere. Il divino però è sempre molto presente nei suoi versi
Questo mondo non è conclusione.
C’è un seguito al di là –
invisibile, come la musica –
ma forte, come il suono –
accenna, e quindi sfugge –
filosofia lo ignora –
è l’intuizione
che deve alfine penetrar l’enigma –
Risolverlo confonde i più sapienti –
a conquistarlo, gli uomini han patito
secoli di disprezzo
e mostrato la croce –
La fede oscilla – ride, si rafforza –
se qualcuno l’osserva, si fa rossa –
s’appiglia a un ramoscello d’evidenza
e la via chiede ad una banderuola –
Grande affanno dal pulpito –
un solenne rullare d’alleluia –
Non possono narcotici blandire
il dente che l’anima rode –
L’intelligente sensibilità della Dickinson riesce a tenere insieme cosmico e domestico, in un doppio che è presagio tanto di morte che di vita, come in That Such have died enable Us (frammento 1030) Esseri come loro sono morti: per questo/moriamo con maggiore rassegnazione./Ma vissero: per noi questo è certezza/dell’immortalità, o dell’amore, dove in Love can do all but raise the Dead (frammento 1731) i versi recitano L’amore può tutto tranne destare i morti – /dubito che persino questo/sarebbe negato a un tal gigante/se la carne rispondesse/Ma l’amore è stanco e deve dormire/ è affamato e deve saziarsi/e così trascura la flotta lucente/finché l’ha persa di vista.
Sono soltanto alcuni dei frammenti poetici della Dickinson, immagini visive che regalano sempre il bagliore immutato di una sorpresa, sommesso invito a entrare nel suo giardino di versi incantato. Tutto si compie per l’incontro con un’anima colma di grazia reverenziale verso l’intero creato.