di Edoardo Poli
Per disgrazia o per fortuna “raccatto” libri, li prendo dovunque: dalle biblioteche quando sono in omaggio, dai mercatini, online, offline, dai siti dell’usato, in prestito, in regalo… Insomma, dovrei cominciare a darmi una regolata e forse leggerli tutti, prima di prenderne altri, come suggerisce un caro amico. In questo contesto, però, sono venuto in possesso di un libro prezioso, scribacchiato e sottolineato a penna – orrore! grideranno in molti. Parlo di Marina Cvetaeva e de Il poeta e il tempo.
Scrivere è un atto di fede nei confronti di sé stesso: lo facciamo in momenti di frustrazione, di impotenza, di rabbia o di amore estremo verso qualcuno o verso il tutto. Eppure, questo ancora non basta. Leggendo Cvetaeva sembra invece che il poeta scriva perché è in perenne ascolto e non può non rispondere al richiamo di ciò che lo circonda:
(…) l’unica preghiera del poeta: non sentire le voci: se non sento, non risponderò. Giacché udire, per il poeta, è già rispondere (…). L’unica preghiera del poeta: diventare sordo.
La poesia sembra così essere una condanna, una ossessione che diviene possessione – mania avrebbero detto i Greci – della Parola che si rifiuta continuamente finché tra le cento parole non trova quella esatta a disegnare la realtà. Il poeta è un campione di pazienza, che non vuol dire passività, bensì volontà del porsi in ascolto finché non si giunge a conquistare anche solo un verso.
La poesia pubblicata nel numero 2 di Articoli Liberi, Poesia per Boris Pasternak, è una sorta di manifesto poetico di una poetessa che nella prosa è quanto mai titanica come essa stessa si dichiara:
In un mondo dove tutti
sono ricurvi e sudici,
ne conosco solo uno
titano come me.
Boris Pasternak compare più volte negli articoli riuniti nel volume Il poeta e il tempo ed è palpabile l’ammirazione che la poetessa ha per lui: Pasternak è l’esempio di quello che Cvetaeva chiama “poeta senza storia”, ovvero colui che come le onde del mare si muove eternamente in un andare e tornare sempre diverso, a differenza del fiume che non è mai lo stesso due volte. Pasternak ha avuto il dono di essere sé stesso da sempre, non ha subìto alcuna evoluzione, non apprende dall’esperienza ma si rinnova infinitamente come “Nella natura il rinnovamento è l’infinita variazione di un unico tema”.
In un mondo dove ognuno
è appassito e parassita,
riconosco che l’unico
sei tu – della stessa essenza
mia.
L’essenza del poeta è quella di essere condannato al tempo in una relazione come quella che lega l’ergastolano al proprio ceppo, in un costante tradimento con l’Eterno, verso il quale tutti i poeti, come lupi che hanno gli occhi rivolti sempre verso il bosco, dirigono il proprio sguardo. Ma il tempo, così come la natura, dà ordini: “Gli ordini che il tempo mi impartisce sono il mio tributo al tempo. (…) L’unica salvezza – mia e dell’opera: in me il mandato del tempo si è rivelato comandamento della coscienza che è cosa eterna. La coscienza per tutti i puri di cuore uccisi e mai cantati, che non si dovevano cantare. (…) Se nelle mie opere il comandamento della coscienza prevale sul mandato del tempo, questa supremazia garantisce che in esse l’amore prevale sull’odio”.
Il tempo diviene disperazione quando si seguono le mode del momento, quando si segue la girandola della morte in un continuo transito da un presente fittizio all’altro, in un carpe diem mortifero. Citando Solov’ëv:
Regnano sulla terra morte e tempo –
tu non chiamarli signori –
tutto ruota e dilegua nella nebbia, solo
è immobile il Sole dell’Amore.
Il poeta alla fine si può dire solo più importante dei parassiti, non ricoprendo alcun ruolo che sia necessario per l’umanità. Eppure, Cvetaeva ammette di non rimpiangere ciò che è stata e ciò che ha fatto: “Conoscendo il più creo il meno. È per questo che per me non c’è assoluzione. Solo quelli come me dovranno rendere conto all’Ultimo Giudizio della coscienza. Ma se esiste l’Ultimo Giudizio della parola – davanti ad esso sono pura”. Quando scriviamo dunque poniamoci di fronte a questo ipotetico tribunale e domandiamoci se la nostra creazione è solo una furberia, uno zoppicare dietro al presente-già-passato o se invece possiamo considerarci innocenti perché ci siamo posti – davvero – in ascolto della natura e del tempo. Non sarà la critica il più severo giudice.