Creature di un solo giorno

di Subhaga Gaetano Failla

Una penna verde e grigia di un grande pappagallo. La innalzo verso il cielo di settembre che si specchia nel lago di Annecy. Uno zefiro mi porta in alto, sopra le viuzze della città vecchia, sopra le montagne azzurre della riva opposta. Ma non è facile volare. Prima della caduta, afferro con la mano libera il cesto di una mongolfiera. L’enorme pallone variopinto brilla e volteggia nella luce del mattino. C’è qualcuno dentro, due uomini eleganti in viaggio tra le nuvole. Mi arrampico sul bordo del cesto. La mongolfiera ballonzola pericolosamente sospesa in aria.
Entro nell’abitacolo. Che spettacolo, le vette innevate delle Alpi, le montagne che diventano verdeggianti dopo tutto quel biancore, i treni simili a giocattoli di una stanza del passato, le persone piccole come formiche. Nel volo, assorto, non sento i sussurri dei miei compagni di viaggio.
Atterriamo in una radura morbida d’erba. Ondeggiamo sulle note di uno xilofono di bambù sparse nel campo. È il momento del commiato. Saluto i due uomini e la mongolfiera. Ricevo in risposta quattro mani aperte e sventolanti, e l’oscillare lento dell’enorme pallone sospiroso.
Cammino e cammino, e dopo un giorno e una notte arrivo nel monastero del monte Catria, in un frammento di paradiso dantesco conficcato tra Marche e Umbria. Di notte il cielo stellato ha dedali dove è facile smemorarsi. Le voci dei musici s’intrecciano con canti di altri universi, fino a giungere in una casa dove si scorge il vuoto.
Il ticchettio del pendolo, nell’antico frantoio divenuto crepuscolare soggiorno, si ripete innumerevoli volte, identicamente. Il tempo è immobile. Forse una lieve inquietudine ne scuote poi la fissità – un pozzo, un orologio d’ebano, la maschera nuda e la danza di un lenzuolo rosso.
Di sera, nel tramonto liquefatto di mare e cielo, nel sentore di nepitella e origano, nella melodia del rigogolo, il piccolo uccello giallo e nero che mi guida verso le sponde del Tirreno calabrese, incontro un’antica nave greca risorta dal mare tra Sant’Eufemia Vetere e Palmi. Sul prato dei ruderi dell’abbazia benedettina, nell’ombra che s’addensa, è disteso il mio amico Ismaele. Riconosco appena le sue parole fioche, portate da un alito flebile nelle alte fronde delle querce e degli ulivi, negli intrichi dei canneti, nei rami contorti di fichi odorosi.
Sui ruderi giganteschi volteggiano i fantasmi di una finzione teatrale. Si piange davvero nel gemito degli attori, sorridiamo e ci incantiamo davanti allo sguardo sbarrato del protagonista che ha per scudo un coperchio di pentola. Sulla fiancata della nave, oltrepassando la prima oscurità, si intravedono alcune frasi di Pindaro in greco. Ismaele, in un soffio, le traduce sillabando:
“Creature di un solo giorno… Sogno di un’ombra è l’uomo.”
“Un’illusione, come questo spettacolo teatrale. Il sogno di un sogno,” mormoro.
“Come questo nostro dialogo. Stiamo entrambi sognando. Ma possiamo destarci,” aggiunge Ismaele. “Forse ci siamo incontrati per tentare il risveglio.”
Apro gli occhi. C’è una casa dove nei giorni fortunati appare il vuoto.

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