Abramo entra in chiesa

di Edoardo Poli

La piazza a quell’ora del giorno era quasi vuota. Le panchine erano per lo più occupate dai vecchi che discutevano di quanto fosse sporca e mal ridotta quella zona, inammissibile continuare a tollerare tanta incuria nella gestione dei luoghi pubblici. Il monumento ai caduti, per esempio, non era mai stato così lercio. E le piante infestanti? erano arrivate quasi ad altezza uomo e inghiottivano le altalene. Al ciarlare degli anziani, poco oltre c’erano i ragazzini che si godevano l’ultimo sole prima del noioso rientro scolastico. Sui loro skateboard avevano monopolizzato gran parte dell’area antistante alla chiesa: tante volte il prete li aveva pregati di andare altrove perché con le loro imprecazioni avevano attirato le ire di più d’una rispettabile signora.
Questi discorsi non erano nuovi alle orecchie dell’uomo che stava attraversando con passo deciso la piccola piazza per dirigersi proprio in chiesa. Aveva una maglia bianca e dei pantaloncini sportivi e sul volto un’espressione seria e preoccupata lo rendeva imponente. Degnò a malapena di uno sguardo ciò che lo circondava, conosceva a memoria quelle strade a ogni ora del giorno e non aveva bisogno di guardarsi attorno per sapere qual era lo stato in cui versava la zona e quali fossero i suoi frequentatori. Tuttavia, qualcosa di nuovo c’era. Non era solito andare in chiesa, se si eccettuava qualche breve visita in quelle che incontrava nei suoi viaggi sporadici durante l’anno. Visitava sempre la cattedrale o il duomo dei luoghi in cui recava, ne osservava la struttura, commentava i dipinti e lasciava due monete tanto per assicurarsi una tenue speranza di salvezza. I pensieri che donava raramente erano per lui.
Questa volta la faccenda era più grave del solito e aveva bisogno di un posto dove potersi ritirare senza essere disturbato. Il portico segnava la linea di confine tra il mondo sacro e quello profano, messa in risalto anche dalla transizione fotocromatica. L’uomo vide attaccato a una delle porte laterali un piccolo foglio che invitava i fedeli a spegnere il cellulare, perché l’unico colloquio che avrebbero intrattenuto sarebbe stato con Dio. Sorrise sulla condizione della Chiesa, che doveva restare al passo coi tempi ma lasciando sempre spazio a un po’ di anacronismo. Entrò. C’era una sola grande navata, con le panche disposte in modo molto ordinato. Si sentì per un attimo smarrito: le pareti erano bianche, senza alcun quadro a donare bellezza a quella nudità di pietra; v’erano solo dei quadretti incisi nel legno che ricordavano le tappe della via crucis. Al fondo, poco prima dell’abside, c’erano da un lato una statua del santo al quale era consacrata la chiesa e dall’altra una lapide in ricordo dei morti di chi sa quale evento, tra i tanti disastrosi che si possono trovare nella storia umana.
L’uomo, distolta l’attenzione dall’architettura, che sempre lo affascinava, si volse a indagare i presenti. Lontano, nelle prime file una vecchietta era inginocchiata con le mani giunte. Di spalle si poteva vedere solo il vestito azzurro con dei pallini bianchi come tema, lo scialle che lasciava libero solo qualche candido ciuffo oltre le spalle. Sembrava completamente assorta, tanto che non si era nemmeno girata quando lui era entrato, nonostante avesse un passo pesante e il silenzio ne amplificasse l’eco. Un altro inquilino dimorava la casa del Signore, anche lui teneva le mani come s’insegna al catechismo, come quando implori qualcuno di farti un favore.
L’uomo – che chiameremo da adesso in poi Abramo – si mise a sedere dalla parte opposta rispetto al bravo devoto che pregava come viene insegnato. Il senso di smarrimento ancora non l’aveva abbandonato, anzi era mutato in qualcosa di diverso. Si concentrò per un attimo su di sé e capì, dopo una breve ricognizione interiore, che si trattava del disagio dovuto alla presenza di altre persone oltre a lui. Si sentiva dunque osservato. “Non c’è nulla di male ad andare in chiesa” si disse, “dopotutto anche loro sono qui come te perché hanno bisogno di sfogarsi con qualcuno”. Provò a imitare gli altri due ospiti e congiunse le mani, ma gli venne subito da cambiare posizione perché si trovava scomodo e in più non gli sembrava davvero di pregare, quanto di essere assorto in un pensiero. Ci riprovò. Invece di stringerle, le pose l’una sull’altra aperte in modo corrispondente, speculare. Quasi si mise a ridere, si trovava ridicolo, gli venivano in mente quei film scadenti in cui la brava ragazza prega Dio congiungendo in quel modo le mani e chiudendo gli occhi, con l’aria da scolaretta. Si prese un attimo e si guardò di nuovo attorno.
L’anziana era ancora al suo posto, ligia come un soldato in trincea che obbedisce pedissequamente agli ordini impartiti dal superiore. La invidiava e senza accorgersene si trovò a pensare male di lei, sperando che le sue preghiere non venissero ascoltate, alla sua età poi cosa c’era da pregare… Questo pensiero gli si rivelò in tutta la sua crudeltà e dovette distogliere lo sguardo. Sentiva su di sé, ora, il severo giudizio di Dio. Ormai aveva formulato quella frase e nulla poteva più cancellarla, era venuta al mondo e non se ne sarebbe mai andata. Sentiva la voce nella sua testa farsi sempre più agitata e aveva paura che qualcuno sentisse la sua conversazione privata. Guardò prima a terra, poi molto lentamente alzo la testa e si voltò per ritrovare sempre l’altro uomo intento nella sua preghiera. Non sapeva neanche più quanto tempo era passato da quando aveva messo piede lì dentro.
Abramo provò nuovamente a concentrarsi, a riprendere il filo dei suoi pensieri per ricordarsi il motivo della sua venuta in quella chiesa che non lo aiutava affatto a concentrarsi. Anzi, proprio nel momento in cui era riuscito a trovare una postura che non ritenesse ridicola, la donna in fondo alla navata aveva deciso di alzarsi e lui non poté non guardarla attraversare lo spazio che la divideva dalla statua del santo. Era davvero molto bassa e il ciabattare del suo passo risuonava ovunque, come se Dio fosse apparso per sentenziare col suo martello di giudice. Abramo cercò di scoprire se anche l’altro si fosse distratto, ma quello continuava con il suo dialogo fitto. Guardandolo meglio intravide un rosario spuntare dalle mani congiunte. Il rumore di passi lasciava ora il posto al silenzio abituale, la donna stava toccando e baciando la statua. Abramo sentiva che il pensiero precedente d’invidia tornava alla superficie della coscienza e subito provò a ricacciarlo indietro: si sentiva assediato dalla sua umanità, estenuato dalla lotta quotidiana per la sopravvivenza.
Ecco, ora, il suo pensiero era interamente focalizzato su quella che era diventata la sua missione: provare a instaurare una comunicazione col Signore. Aveva espunto qualsiasi pensiero di invidia, ogni forma di acredine nei confronti dell’altro; il corpo rispondeva al suo bisogno di pace e serenità trovando una posizione confortevole per la preghiera; gli occhi chiusi non lasciavano entrare alcuna forma di luce, così che poteva andare con la mente avanti e indietro nell’oscurità. Il mondo dunque era alle sue spalle e Abramo avvertiva così il calore inebriante che solo la rassicurazione di un altro, nel quale si ripone la nostra più assoluta fiducia, può dare. Era così concentrato che gli ci volle parecchio tempo per sentire una voce che lo chiamava.
“Scusa, il tuo cellulare sta suonando. Disturba la preghiera”. A pronunciare quelle parole era un omino con dei tratti orientali e una camicia grigia contraddistinta da una fascia bianca sotto il colletto.
“Mi perdoni, padre non l’avevo proprio sentito… ero assorto…” ma il cellulare continuava a emettere un suono fastidioso, così che Abramo dovette uscire. Non guardò nemmeno chi fosse e rispose.
“Suo figlio…”
Abramo guardò la facciata della chiesa e si perse completamente nei dettagli del rosone. La voce al telefono, intanto, continuava a parlare, ma lui non riusciva a badarle, c’era qualcosa di ipnotico nel susseguirsi di quelle strutture, un percorso che andava fino al centro per poi tornare fino all’esterno. “Armonia” quella parola gli affiorò sulle labbra senza che l’avesse minimamente pensata.

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