di Edoardo Poli
“Oh, regà ‘namo a dà fastidio alla Vecchia”.
“Ma perché, ancora batte?”
“Daje, più forte che mai”.
Dietro ai canneti il sole picchiava duro e i ragazzi, in sella alle bici, vivevano la noia dell’estate. Come al solito, nessuno aveva idea di cosa fare durante il pomeriggio, così si ripiegava sui soliti trastulli: giocare a pallone, andare a tirare i sassi ai treni che passavano oppure infastidire la Vecchia.
Carlo era rimasto indietro e guardava il gruppetto che faceva ritorno sulla strada. Non aveva voglia di seguirli, ma cosa avrebbe fatto se fosse rimasto solo? Di tornare a casa non se ne parlava, dunque si mise in moto.
“Ma davero batte ancora la Vecchia?” chiese il Bufalino.
“Aridanghete, sine. Se non batte come fa a campa’? Alla fine, quando uno c’ha voglia, un buco vale l’altro” rispose il Seneca.
“‘Ammazza che poeta, ‘a Se’. Tu a forza de legge sti libri me diventi professore” disse il Bufalino, che faticava a stare dietro agli altri, vista la mole e le gambe corte. Non perdeva però nessuna parola dei discorsi degli altri.
“Bufali’ pensa a cammina’ che stai co’ due buste de fiato, li mortacci”.
Angelo, in testa al gruppo, non aveva voglia di aspettare. A settembre sarebbe andato all’accademia militare e non vedeva l’ora di apparire di fronte alle donne con la sua camicia bianca e i pantaloni neri. I veterani, amici suoi, gli avevano assicurato che le donne non dicevano mai no agli uomini in divisa. La voglia stava salendo e per sfogarsi tirò un sasso al Bufalino.
La città, al sole di luglio, appariva desolata, inadatta alla vita. Dagli edifici inondati di luce si percepiva la mollezza che ogni attimo portava con sé. A quell’ora, poi, non erano molti gli avventurosi che avevano l’ardire di sfidare il caldo, eccetto qualche impiegatuccio che si ritirava all’ombra della sua scrivania oppure chi soffriva di noia. I ragazzi e le puttane. I primi perché non avevano un vero e proprio scopo finita la scuola. Le seconde, perché non avevano altro posto dove andare. L’estate, i clienti erano sempre meno, tutti gli impiegati e i borghesi erano impegnati a rinfocolare il proprio matrimonio – oppure andavano con quelle che trovavano in villeggiatura, indefessi nella loro ricerca di piacere – mentre i giovani erano via altrove, al mare, dove l’amore non aveva bisogno di essere comprato.
Angelo per primo, e poi tutti gli altri, arrivarono nei pressi del luogo di lavoro della Vecchia, la quale però non si vedeva da nessuna parte.
“Ao, ma non è che è morta?”
“Ma quale morta, quella starà in servizio” disse il Seneca. Tutti annuirono.
“Va be’, ‘namo a vede se sta nei paraggi. Chi sa che non la beccamo in fallo”, il Bufalino rise della sua stessa battuta.
Carlo sotto il sole arrancava, ma la curiosità di vedere la Vecchia era veramente forte. Non l’aveva mai davvero vista, essendo un po’ più piccolo degli altri era sempre stato lasciato indietro quando si era trattato di andare a puttane. Così si era accontentato di spiare da lontano. “No, Carlé, non ce poi venì dalle signore altrimenti chi glielo dice a tu madre che diventa nonna?” Quel pomeriggio però nessuno aveva contestato la sua presenza, dunque non voleva perdere l’occasione.
La Vecchia aveva il suo regno in una parte della città antica, delimitata da una piazzetta con quattro panchine, una fontana e due strade in croce che portavano verso la campagna. Le case erano diroccate, abbandonate dopo il bombardamento dell’ultima guerra. Pochi giovani andavano da quelle parti, la maggioranza era figlia della città.
“Ma qua non ce stava er Cianfi?” chiese Angelo.
“No, quello da mo’ che se n’è ito, ha fatto i sordi co le sigarette e il vino: pure le guardie glieli compravano, sia maledetto” rispose il Bufalino.
“E perché noi non avemo ancora fatto i sordi?” domandò il Seneca.
“E chi t’ha detto che non li famo sti sordi”. Angelo non sopportava che il dubbio serpeggiasse tra i suoi. “Mo’ prima se famo ‘na bella scopata e poi pensamo ai danari” e si sfregò il pollice e l’indice.
“Regà, io qua non vedo nessuno. Pare che se so tutti morti” continuò il Bufalino.
“Ma che morti e morti, mortacci tua Bufali’. Quella starà in giro a cerca’ un po’ de felicità, no come noantri che stamo a aspettà a lei”. Il Seneca, nonostante la sua proverbiale calma, si andava facendo irrequieto.
“A Carle’, ma tu ancora qua stai?” Angelo si era accorto ora che Carlo li aveva seguiti. Gli altri si girarono verso il più piccolo della combriccola e fecero spazio.
“Perché non posso?” Carlo provò a mettere su l’aria più indifferente che poteva, “c’ho diritto pure io de sta qua”.
“Ah sì? Gliel’hai detto a mammà che oggi diventi un uomo?” Il tono di Angelo ora era diventato più duro. Si avvicinò e lo prese per un braccio; gli altri lo lasciarono fare.
“Ao’ e lasciame, a coso.”
“Che te faccio male?” Angelo premette ancora di più le dita nella carne.
“T’ho detto de lassamme.”
“Altrimenti…”
“Dai Angeli’, lascialo sta’ poraccio. Non vedi che sta a piagne?” il Seneca si era fatto avanti per dividerli ma il Bufalino si mise in mezzo. “Bufali’, toglite dar cazzo o te sfonno”. Il Seneca non era uno manesco, ma in quella situazione il Bufalino andava trattato come un animale qualsiasi.
“Che voresti fa te? Menamme?” il Bufalino rise e tirò un cazzotto al Seneca che andò per terra. Rialzandosi si mise su una panchina, con un enorme livido là dove il Bufalino aveva colpito.
“Bravo Bufali’, lo vedi che quando vuoi ce sai fa?” Angelo lodava sempre i sottoposti leali, “non come sto impiastro che non sa che è il rispetto”.
“Angelo io non t’ho fatto niente; tu m’hai fatto na domanda e io t’ho risposto”. Carlo provò a buttarla sul piano logico.
“C’hai raggione. Mica non ce l’hai, però me devi risponne bene. Ora, da bravo, vai a cercare la Vecchia e portala qua”.
“E che ne so io ‘ndo sta quella”. Carletto aveva ancora le dita di Angelo conficcate nella pelle, nonostante avesse un po’ allentato la presa.
“Starà nei paraggi”.
Angelo lasciò andare Carlo, che si massaggiò il punto dove l’altro aveva stretto.
“Va be’, vado”. Si avviò alla ricerca della Vecchia. Uscito dalla vista degli altri, tirò un sospiro. Le ginocchia per poco non lo tradirono, ma si fece forza e continuò a vagare per le stradine. “E do’ la trovo mo’ a questa? Mica posso andà a bussa a tutte le porte!” Tese l’orecchio, visto mai che qualcuno stesse urlando in quel momento. L’unico rumore che sentiva era il pulsare della luce solare che si rifrangeva sui palazzi e sulle cose d’intorno. Pochi passanti si avventuravano fuori dalle proprie abitazioni a quell’ora. “Mazza che fa caldo. Quella se sta a fa il bagno, altroché l’amore”. Più il tempo passava e più l’eccitazione per quel compito svaniva.
Così, mentre Carlo era sul punto di tornare indietro, tirando calci ai sassi sparsi qua e là, dei passi si affrettavano per la via. Era l’inconfondibile rumore di tacchi che tante volte aveva udito in casa, quando la madre e la sorella rientravano dal lavoro. Carlo, attratto da quel suono così familiare si volse e vide una donna sui cinquanta, con un vestitino nero attillato; la borsetta stretta tra le dita di una mano, mentre nell’altra un soprabito leggero, inusuale per quel periodo così torrido. Carlo riconobbe subito la figura.
“Scusi” disse maledicendosi per il tono poco deciso.
Lei si guardò intorno, pensando che ci fosse un errore: “Dici a me, ragazzi’?”
“Sì, sì a lei. Me dovrebbe segui'”.
“E pe fa’ che? Io co le creature non ce vado”.
Carlo non ci stava a fare la figura del cretino. Le si avvicinò: “T’ho detto che me devi seguì'”. La strinse al braccio, proprio come Angelo aveva fatto con lui.
“Ao, none, ma che t’è preso regazzi’? Ma se pò sape’ che vòi?” la Vecchia non riusciva a divincolarsi. “Guarda che io per oggi ho finito; fa troppo caldo pe’ lavora'” continuò, ora più rassegnata.
“Io con te non ce devo fa niente, te vònno vede’ l’amici mia. Io co le puttane non ce vado”. Carlo si sentì fiero per quella frase che lo elevava al di sopra degli altri, era uno spirito nobile lui.
“Ah, tu non faresti l’amore con me?” disse la Vecchia, fingendosi offesa. “Guarda che non sono poi così male”. Vide nello sguardo del ragazzo una certa scintilla che aveva imparato a riconoscere, dopo tanti anni. So’ tutti uguali, pensò. “Senti, trovamo un posto e ti faccio vedere come si fa, poi torni dagli amici tuoi e gli dici che non m’hai trovata”.
Carlo guardò meglio in faccia la donna e si accorse per la prima volta di quanto, dietro quel trucco, il tempo fosse passato anche per lei. Le palpebre erano segnate da piccole rughe, anche la fronte non era più liscia come quella delle sue amiche; le labbra poco carnose conservavano però una certa freschezza. Carlo si fermò a guardarle, provò a baciarla. Lei fu colta di sorpresa e non riuscì a evitare il contatto tra le labbra. Si dibatté ma opponendo sempre meno resistenza si lasciò andare, suggellando un patto carnale tra i loro corpi. Le mani di Carlo non sapevano dove andare, tastavano alla cieca, si fermavano sui seni e poi ricominciavano a cercare il culo e risalivano alla testa. La frenesia giovanile non conosceva alcun vincolo, nessun pudore. La Vecchia lo lasciava sfogare, sperava che tutto quello gli bastasse, lo colmasse. Di giovani ne aveva avuti, tutti credevano di essere degli eroi, tanti Achille di fronte alla loro Briseide. La foga, la voracità della prima volta li rendeva freddi, spietati e crudeli. Per loro era solo una puttana e nient’altro, così permetteva loro di tutto e in poco tempo raggiungevano l’orgasmo. Forse era per questo che era così famosa, perché lasciava spazio agli altri, non li giudicava, non li guidava, non aveva nulla da insegnare. L’amore per loro era solo un passatempo, una delle tante meschine attività della vita. Quel ragazzo non era tanto diverso da tutti gli altri. Mentre si dirigevano in silenzio verso una stanzetta nei dintorni, la Vecchia cominciò a piangere. Carlo non si accorse di nulla, pensava agli amici che lo aspettavano.