Primi giorni d’autunno come un’estate. Il mare d’ardesia scorre al finestrino del treno. Nel torpore spossato sul sedile pullulano le scene della festa di compleanno di ieri. I volti incomprensibili del passato aderiscono, plasmandosi nel dubbio di un’unica immagine, ai volti di un incomprensibile presente.
Consueta ironia della sorte. Dopo mesi di attesa, nei pressi della nostra stazione di partenza ricevo in prestito il libro La valigia di Dovlatov. Sistemiamo valigie e zaini nel vagone affollato del Frecciarossa.
“Hai notato?” dico a mia cugina nel vociare della festa di compleanno. “Gli zii sono quasi tutti spariti. Il trascorrere del tempo li ha cancellati.”
“Già,” risponde. “In una festa simile, chissà in quale futuro, i più giovani parleranno allo stesso modo della nostra assenza.”
Aggiungo il mio respiro nella stazione accaldata di Milano, nel ritmo sincopato di migliaia di respiri e di oscillanti ragnatele di pensieri. Metro Loreto-Cologno Nord. Nel vagone una donna mostra una foto di un neonato e con voce lamentosa avvicina al petto dei passeggeri, invano, un bicchiere di carta per l’elemosina. Arriva il mio turno. Deposito una moneta nel bicchiere, per vigliaccheria. L’odore di macchine e paludi umane si spande nelle viscere gonfie della città.
Dal suo letto di sterpi e mare, Ismaele narra di giorni e notti di Dostoevskij e Hamsun. Appaiono in sussurri ispirati le ginestre e il vulcano di Leopardi, il labirinto benevolo dello Zibaldone, i padri mostruosi di Strindberg e Lou Reed, gli elettrochoc del Velvet adolescente e i bagliori bianchi di un lontano viaggio artico di Ismaele.
Il nostro ottobre e i mezzodì infuocati, come un’estate di antiche navi greche precipitate in mortali prati edenici, nell’orribile bellezza della ninfa Scilla, nel canto delle Sirene e nella voce di Manu dalla carne viva del suo Subversion and Desire: “one may discover a song within oneself, a song whose nature is nonhuman”. Mi accompagnano nel primo plenilunio d’autunno, nei passi di una passeggiata ad Annecy, le pagine sireniche di Manu e la luce livida di Lispector e G.H.
Calle Larga dei Ragusei, dopo una notte nella luna di Mestre, su un muretto veneziano del mattino di sabato. Sciabordio delle acque e rombo di percussioni elettroniche sulle porte di un hotel prima del pranzo. Nella Corte S. Marco, il sereno prencipe, nel 1759, fa sapere che è vietato sussurrar, tumultuar, streppitar o in altro modo inquietar, con pena a chi contrafarà, di prigione, corda, frusta, galera, berlina. Cercare la quiete nello sferzare della frusta, nel furore del sole in un autunno come questo.
Orecchini di murrine azzurri e viola, e dopo la luce di vetri e cieli, oltre il sentore chiuso delle calli, ci avviamo verso una nuova notte, nelle parole pubbliche dello scrittore, di un risarcimento rivolto ai senza parole e agli accerchiati da lingue ignote.
La mano che disegna sé stessa di Escher, la mano impossibile da disegnare. Come quell’imitatore di voci di Thomas Bernhard che sapeva imitare tutte le voci tranne la propria. Il risarcimento di un passato, di una inesistenza, il racconto di una ulteriore finzione letteraria. Come nelle pagine oscure di Lispector, “perché vivere non è narrabile”. Come un’estate di carta nel primo autunno, sul mio quaderno con la copertina di arancia e di rosa rossa.
La mattina del primo ottobre partiamo per i Colli Euganei. Ci aspettano nella loro casa Erberto e Dacia. Ho il sole basso alle spalle, durante la passeggiata in attesa del breve viaggio, e il sole di fronte, nel riflesso abbagliante di una finestra al primo piano. Il profumo degli alberi nel viale si spande ancora libero, incorrotto dal tanfo del poco traffico urbano del dì di festa. Un uomo con una folta barba bianca sgrida un minuscolo cane. Rimbalzano nell’aria chiara i suoni registrati di grandi campane finte.
Strappo una pagina del calendario appeso al muro. Ne appare un’altra: ottobre 2023. Penso in un banale automatismo che anch’essa stia già invecchiando. In un prato dei Colli Euganei siamo accolti dal vasto abbraccio di Erberto e Dacia. E dopo decenni incontriamo ancora Giorgia e Ferdinando. Il cielo è commovente, sfuma nel tramonto.
Erberto mi presenta un vecchio abitante di quei villaggi. Mauro mi parla del padre, confinato dal fascismo negli anni Trenta a Belvedere Marittimo. Assaporo le sue parole masticate nel dialetto padovano, hanno il gusto della giuggiola tra i denti raccolta a mezzogiorno. Dico a Mauro che ho abitato da bambino in questo piccolo paese del Tirreno. È sorpreso fin quasi alle lacrime: “Lo racconterò domani a mia madre,” mormora. Andrà a comunicare la notizia nel cimitero del villaggio.
Sangita mi dice per telefono delle sue finestre chiuse all’odore di bruciato di un autobus, rovesciato come una tartaruga con le zampe in aria.
Le teste litigiose dell’Idra finalmente trovano pace, ed eroi sconosciuti proteggono con tremore e coraggio i corpi vulnerabili. E poi altri incontri, col cuore pulsante come la corsa di un fanciullo, e i cieli vorticano sopra di noi all’impazzata, nel profumo di fiori d’ottobre come a maggio, nel fresco del mattino che ci bacia le braccia nude. I sandali consunti hanno fruscii sui marciapiedi silenziosi, nell’odore di focacce e basilico, nell’olezzo del diesel di camion sulle strade dei sobborghi milanesi. E il respiro è in tumulto e poi ha pause e spazi, e tutto si muove e si ferma, si ferma e si muove. Bevo con Joshi un calice di vino rosso e cammino con lui tra le trascorse geometrie di banchi scolastici e le rotaie di tram sul viso della città. Il sogno nell’alba d’ottobre di una partita a scacchi e i ghirigori a penna sulla pagina del quaderno. La mente è una scimmia che si dimena in una stanza chiusa.
Nella Feltrinelli del Duomo leggo le prime righe di Saroyan del racconto La casa delle formiche. Seguiamo con Rangreli a passo veloce, zigzagando tra la folla ai lati, la banda musicale dell’Aereonautica.
“Di certo non è il momento migliore per chiederle una informazione,” mormoro. “Sa se ci sono prugne gialle?”
La donna dai lineamenti eleganti, una commessa del grande supermercato, è piegata sul pavimento, un po’ smarrita in mezzo a centinaia di patate cadute a terra insieme alle cassette che le contenevano.
Rivolge in alto il viso, scomodamente, verso di me:
“Non ce ne sono più. Le abbiamo avute, ma adesso sono finite.”
“Posso darle una mano?”
“Oh, no, grazie.”
Una breve indecisione e mi chino a raccogliere le patate con lei. Sono d’un giallo ocra e leggermente bagnate. Riempiamo le cassette senza dire una parola. Subito dopo si uniscono a noi un uomo biondo sulla cinquantina e una bella ragazza, forse indiana. Raccogliamo tutti e quattro in silenzio. Sento un po’ di fastidio dapprima, ma poi diventa piacevole il contatto rapido delle dita sulle bucce lisce e umide.