di Massimo Beccarelli
Qualche giorno fa ho riletto Frankenstein di Mary Shelley. Mi sono imbattuto in un articolo sul web che ricordava come l’anno 1816, in cui questo testo fu scritto, fosse ricordato come “l’anno senza estate”. Ricordavo vagamente di aver visto alcuni quadri con il Tamigi congelato, ma l’occasione per approfondire l’argomento era piuttosto ghiotta. Ebbene, la causa di quel fenomeno fu assolutamente naturale. Nell’aprile 1815, nell’arcipelago Indonesiano, eruttò il monte Tambora e l’eruzione uccise oltre 100mila persone. Oggi sappiamo che dal vulcano furono eruttati oltre 10 chilometri cubi di magma e ceneri e 400 milioni di tonnellate di gas che produssero una colonna alta 44 chilometri. Fu una delle più violente eruzioni vulcaniche avvenute in tempi storici. Il Tambora fece sì che l’anno successivo, il 1816 appunto, fu detto “anno senza estate” o “anno della povertà” perchè il gas e il pulviscolo, proiettati nell’atmosfera, provocarono un forte raffreddamento di tutta la terra, facendo perdere gran parte dei raccolti.
Mentre approfondivo le vicende di quella strana estate, ho pensato di riprendere in mano quel libro che, di quei giorni, fu il frutto più evidente. In quell’anno, infatti, lord Byron propose a un gruppo affiatato di amici scrittori tra cui Polidori, Mary Shelley e il suo futuro marito Percy Shelley, di ingannare la noia scrivendo un racconto spaventoso. Nasceranno in quell’occasione, non solo Frankenstein, ma anche il Vampiro di John Polidori, scritto quasi un secolo prima del Dracula di Bram Stoker. Gli altri non riusciranno nell’impresa.
La rilettura di Frankenstein nasce quindi per caso, ed è piuttosto rischiosa, per così dire, perché prima di iniziare bisogna sgombrare la mente dai vari ricordi cinematografici che, nel corso degli anni, si sono sedimentati. Non facile, ma ci provo. Non ricordavo minimamente le lettere che aprono il romanzo. Chiare in mente mi erano, invece, le premesse legate agli studi del dottor Frankenstein, che da ragazzo avevo trovato piuttosto noiose. Ora le trovo molto interessanti e mi colpisce l’ansia dell’uomo che vuole scoprire il mistero della vita e il suo sogno di sconfiggere la morte. Sarà forse che sto invecchiando, ma ne colgo il senso.
Continuando in queste riflessioni, pensai che se potevo dare vita alla materia inanimata, sarei riuscito col tempo (benché ancora mi fosse impossibile) a riportare la vita dove ora la morte mostrava di aver destinato il corpo alla corruzione. Questi pensieri mi sostenevano mentre continuavo nella mia impresa con ardore infaticabile. Le mie guance erano pallide per lo studio e la reclusione mi aveva consunto il fisico.
La creazione della creatura, la parte più nota, mi era piaciuta allora e la trovo ancora bella. L’entusiasmo per la riuscita dell’impresa, che ha del miracoloso, ben presto cede il passo al disgusto e al rifiuto della propria creatura. L’analisi dei sentimenti del personaggio è, a mio modo di vedere, notevole.
Come posso descrivere le mie emozioni in questo momento culminante, o rappresentare la disgraziata creatura a cui con cura infinita e infinite pene aveva cercato di dare forma? La sua pelle gialla a malapena copriva la trama dei muscoli e delle arterie; i suoi capelli erano fluenti e di un nero lucente, i denti di un bianco perlaceo, ma questi pregi facevano solo un più orrido contrasto con gli occhi acquosi che sembravano quasi dello stesso colore delle orbite biancastre in cui erano infossati, con la sua pelle corrugata e le labbra nere e tirate. Avevo lavorato sodo per quasi due anni con il solo intento di infondere vita in un corpo inanimato. Per questo mi ero privato di riposo e salute. Ma ora che avevo finito, la bellezza del sogno svaniva, e un orrore e un disgusto soffocanti mi riempivano il cuore.
Trovo che qui siamo al cuore del romanzo. Lo scontro tra il desiderio di farsi creatore, e il contatto con la realtà, mostra i limiti dell’uomo che osa troppo ed è destinato al fallimento. La fuga del mostro e la sequenza di delitti da lui compiuti non sono altro che la conseguenza di aver sovvertito le leggi della natura, che si ribella e si vendica. E allora ho ripensato al sottotitolo originale, Il moderno Prometeo, colui che infranse le leggi delle divinità rubando il fuoco e donandolo agli uomini, e per questo fu condannato a eterno supplizio….
Da questo punto in poi, trovo che il volume perda un po’ della sua forza. Ma il finale, riprendendo i temi chiave e chiarendoli meglio, è ancora una volta molto profondo e merita di essere letto attentamente. Il mostro o “demone”, come lo definisce l’autrice, in fin dei conti, è a sua volta una vittima dell’ambizione del suo creatore che ha generato un essere destinato alla frustrazione, all’infelicità, al dolore. Esso stesso, infine, rendendosene conto, si avvia all’autodistruzione. Ecco le parole della creatura, che chiudono il romanzo e danno senso al tutto:
Desideravo sempre amore e compagnia, e sempre venivo respinto. Non c’era ingiustizia in questo? Devo forse essere considerato l’unico colpevole, quando tutta l’umanità ha peccato contro di me? Io, infelice e abbandonato, sono un aborto che si rifiuta, si prende a calci e si calpesta. Morirò. Non sentirò più le angosce che ora mi consumano, e non sarò più preda di passioni insoddisfatte eppure irreprimibili. Colui che mi ha chiamato in vita è morto; e quando non ci sarò più, persino il ricordo di noi due sparirà rapidamente.