Davis e Lucinda Matlock nella Spoon River Anthology sono in realtà i nonni paterni dell’autore di questa celebre opera, vissuti a lungo a Petersburg con la loro numerosa famiglia, dodici figli di cui otto sopravvissuti. Uno di loro diventerà avvocato, sposerà una donna dalle ferree idee puritane, vivendo con la sua famiglia nel più rigido rispetto dei valori sudisti dei pionieri che agli inizi dell’’800 dalla Virginia si erano trasferiti nell’Illinois. Edgar Lee Master, nell’età matura celebrato poeta dell’Anthology, è il figlio destinato a seguire le orme professionali del padre, a undici anni lascia la fattoria dei nonni a Petersburg e si trasferisce con la sua famiglia nella piccola città di Lewistown, sulle sponde del fiume. A ventitré anni, dopo un litigio con la madre che non vede di buon’occhio le sue inclinazioni letterarie, raggiunge Chicago, la nuova capitale letteraria americana, dopo Boston e prima di New York, tentando senza fortuna di farsi strada nel giornalismo, mentre gli si aprono le porte di un famoso studio legale, con la carriera di avvocato a portata di mano, pronta a fargli guadagnare rispettabilità e successo. Edgar Lee Master riesce comunque a pubblicare nel 1898, prima dei trent’anni, un primo libro di poesie A Book of Verses, una raccolta di ritratti di personaggi mitologici e letterari, mentre l’amico William Marion Reedy, direttore del giornale «Mirror» di St. Louis, in Missouri, lo incoraggia nella lettura di una raccolta scelta di epigrammi greci dell’Antologia Palatina. L’opera è un classico composto da ben 3700 epigrammi ed epitaffi, caratterizzati dalla brevità componimenti (dal IV secolo a.C. fino all’età bizantina) conservati tra Heidelberg e Parigi. Il giovane E. Lee Masters legge anche l’Elegia scritta in un cimitero di campagna dell’inglese Thomas Gray, quindi, complici i ricordi dei luoghi della sua giovinezza, intraprende la stesura di un progetto letterario impegnativo, destinato a dargli una fama inattesa e non di breve respiro. Si tratta di un viaggio nelle storie degli abitanti di un paese della fantasia, viste da una prospettiva del tutto particolare, lo scrittore infatti immagina di attraversare il cimitero di questa piccola comunità e di ascoltare da quei morti che dormono sulla collina delle inumazioni il racconto delle loro vite, attraverso la propria epigrafe. Si tratta di testimonianze di quanti hanno già attraversato il confine della vita ed ora dormono sulla collina, in un tempo in cui non serve più fingere o mentire e la poesia diventa linguaggio di verità. In otto mesi circa di febbrile scrittura, tra il 1914 ed il 1915, Edgar Lee Masters compone queste epigrafi, alcune di queste storie vengono ospitate nel giornale dell’amico direttore, pubblicate con lo pseudonimo di Webster Ford, poi raccolte tutte in un volume uscito a New York nell’aprile del 1915. L’edizione definitiva di 244 poesie è invece del 1916, per ognuna un personaggio e la struttura, per ammissione dello stesso autore, ricalca la via tracciata da Dante nella sua Commedia:
I pazzi, gli ubriachi e i falliti vengano prima, le persone dall’animo singolare abbiano il secondo posto, e gli eroi e gli spiriti illuminati giungano per ultimi, in una sorta di Divina Commedia.
La Spoon River Anthology avrà uno straordinario successo, destinato a crescere anche dopo la morte dell’autore, grazie a numerose ristampe e traduzioni in varie lingue, così oltre l’autore gli stessi ignari protagonisti guadagneranno un’insperata immortalità, mentre le successive opere di E. Lee Masters resteranno in una zona d’ombra e senza storia. La raccolta è un affresco umano storicamente radicato in un’epoca precisa (la terra dell’Illinois e della Chicago delle seconde e terze generazioni di pionieri), in realtà, la sua fortuna nel tempo testimonia dell’insospettabile forza che questa scrittura poetica ha di farsi esperienza che travalica il suo tempo, divenendo universalmente riconoscibile. In Italia sarà la rivista di filosofia, letteratura e storia La Cultura fondata da Ruggero Bonghi nel 1881, poi diretta dallo studioso e critico abruzzese Cesare De Lollis, ad aprirsi alla conoscenza delle grandi letterature straniere e della Spoon River Anthology. Novembre del 1931, alla guida della rivista c’è un comitato di redazione con Arrigo Cajumi direttore in pectore, un giovanissimo Cesare Pavese pubblica in quel numero un breve saggio, in difesa dell’opera di E. Lee Masters. L’Europa, fino ad allora, non aveva manifestato particolare interesse per quel poco conosciuto autore statunitense, mentre a Parigi l’americanista Régis Michaud lancia un giudizio critico molto riduttivo che Pavese, proprio in quell’articolo, sintetizza come di “un’opera rappresentativa delle folle ingabbiate e livellate, refoulées, dal puritanesimo e dalla nuova civiltà degli Stati Uniti”. Lo scrittore piemontese è invece di ben altro avviso. I brevi componimenti hanno la novità stilistica del verso libero, costruito nell’essenzialità e animato da un afflato autentico di sentimenti, eppure quegli abitanti della comunità ideale di Spoon River, finalmente si raccontano, dalla condizione dell’essere al di là della vita stessa, mettendo a nudo la propria anima anche negli aspetti più deteriori e di fallimento. Oramai senza inutili infingimenti e orpelli queste esistenze non rifuggono dalla sconfitta, dal tradimento o dalle prevaricazioni, dove pressoché tutti si lamentano di aver mancata la vita, sotto lo sguardo commosso e partecipe del loro cantore. E. Lee Masters infatti raccoglie quelle confessioni, senza emettere un giudizio o accendere una polemica, piuttosto abbandonato in un ascolto accorato e fraterno. Sarà Fernanda Pivano una ex-allieva di Pavese, professore al Liceo classico di Torino “Massimo d’Azeglio”, ad approntare la traduzione dell’Antologia, avvalendosi, perché alle prime armi, proprio dei preziosi suggerimenti di quel professore che voleva sposarla, ma che lei rifiutò per ben due volte.
Ora Pavese è bene introdotto nel mondo dell’editoria, è un dirigente dell’Einaudi, convinto come già scrisse in quel saggio del ‘31, che niente di “prosaico” può esserci nello stile di E.Lee Masters
È inutile discutere: se uno non sente da sé la solennità tragica e definitiva di quelle poche frasi, poste a concludere una vita, in un verseggiare così sobrio e pacato, che ha semplicemente l’ufficio di segnare il pensiero, dubito che qualunque discorso lo possa mai educare.
La convinzione alla pubblicazione è ferma, si racconta che Pavese, proprio per ottenere il permesso alla stampa, dovette ricorrere al titolo Antologia di S. River evocativo di un non meglio precisato santo, riuscendo con l’Einaudi a pubblicare la raccolta nel marzo del 1943. L’opera entra nel panorama editoriale italiano da una porta principale, anche con le critiche di chi lamentava la poca universalità di un’opera legata piuttosto alla generazione e ai luoghi descritti, tutto questo però stride con il favore del pubblico e delle vendite. E in quanto storie di vite “comuni” e quotidiane, che accadono a chiunque e ovunque, come non riconoscere nei personaggi dell’Antologia un’esperienza umana che ha dei tratti comuni con l’esperienza di ognuno di noi? Il segreto del vitalismo della raccolta, che conta ancora oggi appassionati frequentatori, è proprio la grande umanità e il commosso ascolto di queste voci che si levano dalle singole epigrafi, ognuna animata da una forte tensione etica e senza prevaricazioni di ruolo o posizione, fuori luogo oramai su quella collina che tutti attende. La brevità del verso, poi, e di un pensiero dal sapore autentico, sono propri di una poesia moderna, che aspira a essere non soltanto letta ma anche sapientemente pronunciata. Cesare Pavese nel suo breve saggio del ‘31, come esempio di novità stilistica, richiama l’epigrafe di un uomo morto in giovane età, Francis Turner questo il suo nome, la cui vicenda commuoverà una giovanissima Fernanda Pivano, spingendola a tradurre tutta l’Anthology pubblicata per la prima volta in Italia nel ‘43, ascoltiamo quanto Francis ha da dirci:
Io non potevo correre né giocare
quand’ero ragazzo.
Quando fui uomo, potei solo
Sorseggiare alla coppa,
non bere –
perché la scarlattina mi aveva lasciato il cuore malato.
Eppure giaccio qui
blandito da un segreto che solo Mary conosce:
c’è un giardino di acacie,
di catalpe e di pergole addolcite da viti –
là, in quel pomeriggio di giugno
al fianco di Mary –
mentre la baciavo con l’anima sulle labbra
l’anima d’improvviso mi fuggì.
Una vita che fugge in un momento ancora aurorale. Un ultimo gesto appassionato e coraggioso, che il giovane Francis ha portato con sé, nonostante il beffardo destino pagato con la vita; la rivelazione soltanto ora che dorme sulla collina èdi commovente semplicità e di un coraggio che soltanto l’amore riesce a dare a chi non ha voluto, anche solo per un attimo, risparmiarsi alla pienezza della vita. George Gray è invece un’epigrafe che fa da contraltare, una vita dove il coraggio è mancato, eppure la consapevolezza può fare invertire la rotta di un’esistenza, questo è il suo monito ai vivi, dolorosamente chiaro per George soltanto ora che dorme sulla collina, vale la pena ascoltarlo:
Molte volte ho studiato
La lapide che mi hanno scolpito:
una barca con vele ammainate in un porto.
In realtà non è questa la mia destinazione
Ma la mia vita.
Perché l’amore mi si offrì e io mi
Ritrassi dal suo inganno;
il dolore bussò alla mia porta, e io
ebbi paura;
l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti.
Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita.
E adesso so che bisogna alzare le vele
e prendere i venti del destino,
dovunque spingano la barca.
Dare un senso alla vita può condurre alla follia
ma una vita senza senso è la tortura
dell’inquietudine e del vano desiderio –
è una barca che anela al mare eppure lo teme.
I monologhi-confessione che si levano dalla collina, quindi, non sono soltanto poesie che fanno cenno a cronache locali e storie ascoltate dal poeta nei suoi anni giovanili. L’autore, semmai, “lavora” quel materiale grezzo riuscendo nella difficile scommessa, epigrafe dopo epigrafe, di fare cogliere a chi legge la disperata tensione di ogni anima e il suo più autentico segreto di vita. Lo snodo decisivo di questa scrittura, però, è quello di collocarsi oltre il dato biografico, in un anelito sovratemporale in cui il phatos trascende il singolo accadimento, per accordarsi a un livello di comprensione più profondo del testo, e della vita stessa. Alcuni versi sembrano poi dirci che la vita la si conosce troppo tardi, come nel caso di Alexander Throckmorton il cui monito mette in guardia dal fallimento delle ambizioni e da un destino cinico che sembra prendersi gioco della vita di noialtri uomini, vale un ascolto riflessivo:
Quand’ero giovane, avevo ali forti e instancabili,
ma non conoscevo le montagne.
Quando fui vecchio conobbi le montagne
Ma le ali stanche non tennero più dietro alla visione.
Il genio è saggezza e gioventù.
Infine tornando a Davis e Lucinda Matlock nella Spoon River Anthology cioè i nonni paterni di Edgar Lee Masters, il ritratto che il nipote fa di questa nonna è quello di una donna allegra, che tante volte gli avrà sorriso, vale la pena di congedarsi ascoltando parole di tenacia e ottimismo, una donna non risparmiata dal dolore che riesce, comunque a parlarne, anche dopo la morte:
Andavo a ballare a Chandlerville,
e giocavo alle carte a Winchester.
Una volta cambiammo compagni
Ritornando in carrozza sotto la luna di giugno,
e così conobbi Davis.
Ci sposammo e vivemmo insieme settant’anni,
stando allegri, lavorando, allevando dodici figli,
otto dei quali ci morirono
prima che avessi sessant’anni.
Filavo, tessevo, curavo la casa, vegliavo i malati,
coltivavo il giardino e, la festa,
andavo spesso per i campi dove cantano le allodole,
e lungo lo Spoon raccogliendo tante conchiglie,
e tanti fiori e tante erbe medicinali –
gridando alle colline boscose, cantando alle verdi vallate.
A novantasei anni avevo vissuto abbastanza, ecco tutto,
e passai ad un dolce riposo.
Cos’è questo che sento di dolori e stanchezza,
e ira, scontento e speranze fallite?
Figli e figlie degeneri,
la Vita è troppo forte per voi –
ci vuole vita per amare la Vita.