di Lara Carbonara
Mi stringo alla vita ossuta e agile di mia sorella, mentre a bordo di una vespa percorriamo la Route 66 per festeggiare i miei quaranta. Tocco le sue spalle contratte prese dalla guida, ascolto l’immobilità del paesaggio intorno. Qui, in un mattino di afa e luce sembra echeggiare stridula l’assenza. Le nuvole ai lati della strada sembrano cieli calpestabili. Mi guardo intorno e vedo terra polverosa che sussurra di lupi e bisonti, di cavalli al galoppo e di pelle dipinta uccisa brutalmente.
“L’avevo detto che non avremmo dovuto allontanarci dal gruppo. Ci siamo perse?”
“guardati intorno”
“c’è solo polvere”
“Sono strade piene di fantasmi. Li senti soffiarti accanto con il vento?”
Mi guarda, mi sposta delicatamente una ciocca dagli occhi. Il casco li ha incollati alla fronte. Con mani frettolose liscia la maglietta spiegazzata dal vento. Una insegna abbellita da una bicicletta verde smeraldo ci annuncia un luogo di pausa. Ai lati dell’entrata due colonnine di benzina impolverate. Entriamo nella struttura intrisa di profumo di oli bruciati, miraggio dei viaggiatori persi.
Non so perché proprio in quel momento quel posto mi fa ricordare dei mesi in cui non dormivo più. Mesi in cui la sua scrittura immaginata dietro le sopracciglia scivolava sulla carta stropicciata di notti insonni. Sopravvivevo con la sensazione di rimanere ferma. In qualche modo, un giorno, le cose avevano smesso di stare al loro posto.
Mi ricordo quando mia sorella mi ha detto che saremmo partite per tirarmi su di morale. Mi aveva mostrato due biglietti aerei come regalo per il mio compleanno; ero rimasta incredula, era la prima volta che faceva qualcosa per me. Guarda, davvero, non me la sento, avevo provato anche a dirle, lei si è limitata a buttarmi ai piedi anche due zaini. Riempili per bene, partiamo presto. Ho il cuore spezzato, le ho detto. Le cose vanno così, per questo ci sono io. Ci penso io, mi ha risposto. Ehi, ho sussurrato, e non mi veniva niente da dire. Lei poi mi ha assicurato che ci sarebbe voluto del tempo.
Avevo lasciato fuori dallo zaino tutte le mie scelte a metà, in quel momento avevo bisogno di essere decisa. Avevo metabolizzato l’abbandono nei chilometri che lasciavo alle spalle. Non l’ho superato, l’ho solo portato da una parte all’altra.
Entriamo. L’odore della benzina gocciola dalle pareti. La stanza respira regolarmente. Le sedie di legno, i banconi impolverati, le fotografie in bianco e nero dai muri incrostati ci fissano.
Un frigorifero rosso sbiadito dà colore a una stanza raschiata dal tempo. Sul pavimento, sparse diverse taniche vintage di benzina. Un piccolo scrittoio sordo e impolverato giace in un angolo abbellito da un vecchio registratore di cassa e una pila di quotidiani ingialliti. Una sedia consumata riempie la scena senza illuminarla. Dalle piccole finestre entra una luce ovattata. Potranno essere le sei di pomeriggio. Dagli oggetti d’epoca esposti in una bacheca viene fuori la loro consistenza, la loro storia, la loro fame. Tocco quelle cornici contratte, infilo le dita nelle impugnature delle taniche, provo quei cappellini da baseball appartenuti a chissà chi, metto insieme una memoria immobilizzata. Da un mondo distante l’attesa si colma di queste voci lontane, un ritmo immobile, ancestrale corre come un lupo liberato.
Non so da dove spunta un uomo, gli occhi nerissimi dei nativi. È integro, cammina con gambe tenaci, come uno che se la cava sempre. Senza salutarci ci chiede se ci siamo perse. Davvero, sì, ci siamo perse, chiediamo se possiamo usare un telefono, non c’è campo.
“Non ci sono telefoni a Vega”.
Ci guardiamo senza parlare. Al centro della stanza c’è una bacheca con cimeli d’epoca. Scatole di latta vuote, bottiglie di vetro opache, uno pneumatico consumato con tanto di targhetta, arnesi del mestiere arrugginiti. Ora la ruggine serpeggia anche nelle ossa. Guardo i suoi occhi feroci e ho sete.
“Ha mica qualcosa da bere? Ho proprio bisogno di rinfrescarmi”.
L’uomo si accende una sigaretta, senza fretta butta il fiammifero in un posacenere annerito, tira fuori una bottiglia di un liquido trasparente e ne versa un po’ in due bicchieri trovati su un ripiano alle sue spalle. Versa fino quasi a riempirli.
“Distillato di mais, lo produciamo qui”.
Quercia bruciata, caramello, vaniglia, pepe, noce moscata.
Il liquido raggiunge ogni anfratto, il silenzio prende alla gola, la terra preme da ogni parte, le fiamme penetrano strisciando nei pori.
Probabilmente già barcollo, ma lui ci invita a riempirci di nuovo il bicchiere.
“Lei abita qui?”
“Si abita la terra che si calpesta. Io abito qui da quando i lupi correvano liberi e gli spiriti respiravano fuori dalle riserve. Noi Pueblo sopravviviamo sempre”.
L’aria diventa come pietra.
“Stiamo cercando di contattare il nostro gruppo”, interrompe una voce accanto a me. Guardo mia sorella come se la vedessi per la prima volta, a me piace stare a sentire lo straniero. Questo nativo con la pelle fresca e i capelli nerissimi che odorano di erba emana un incredibile magnetismo; la profondità dei suoi occhi elettrizza l’aria e mi attira inesorabile.
“Non torneranno più indietro. Qui su questa strada si va solo avanti”.
Mi viene da sorridere e invece arrossisco. Mi fissa fiero mantenendo la sigaretta con il lato della bocca. Si aspetta una risposta proprio da me.
“Temo proprio che dovremmo contattare il nostro gruppo. La nostra moto sembra si sia rotta”. Sempre la voce accanto a me. Mi giunge come un’eco. L’uomo senza smettere di fissarmi risponde che sì, potrebbe dare un’occhiata, “voi potreste mettervi comode”.
“Quanto immagina di metterci? Noi dovremmo andar via”.
“C’è una stanza su, dove potete dormire per stanotte. Le nuvole sono basse e presto diventerà buio pesto”.
“Ehi – supplico mia sorella – sarebbe divertente se rimanessimo qui un po’”.
Lo guardo, indovino il duo desiderio, osservo le sue labbra carnose sussurrarmi di bere ancora, è un liquido che fa bene al cuore, mi convince. Mi scosta una ciocca dalla fronte forse come avrebbe fatto mio marito. Le mani nodose, si infilano nei miei capelli, mi tira a sé. Sento il respiro di albicocca sulla fronte. È così vicino che posso percepire i pensieri di gemiti e ansiti infiammargli il torace. Il suo sguardo mi sembra così dolorosamente affilato, che immagino riesca ad intuire la punta dei miei capezzoli inturgidirsi, la cavità tiepida delle mie ascelle sudare, la curva della schiena tremare, la pelle del ventre trasalire. Mi lascio frugare l’anima e lascio andare le lacrime, sento il sapore della tristezza scomparire. La sua saliva anestetizzata riempie la mia bocca affannata. Il miele della mia lingua assaggia la sua pelle scarabocchiata da profonde cicatrici. Non ti lascerò mai, diceva mio marito, mentre vedeva l’altra. Non voleva neanche ferirmi, è stata solo una punta di spillo a penetrarmi dritta in testa. Se n’è andato senza dirmi niente, forse con lei. Ho il fiato corto, le gambe liquide, il seno nudo, ho solo parole prosciugate dalla rabbia. Stringo le sue cosce, mi tocco. Ho gli umori crudi del Texas in ordine sparso sul corpo.
Domani ricorderai una notte bagnata e scandalosa.
Ubriacarmi così, delle sue cosce salde, di labbra umide, di carezze, sospiri, singhiozzi, sotto un cielo di abbandono.
Guardo mia sorella darmi le spalle per uscire. La guardo frugare nel taschino e accendersi una sigaretta.
Io rimango a bere il mio distillato di mais e aspetto.
Nella stazione di servizio non c’è anima viva.