Quando pensiamo ai grandi scrittori del passato, quelli ormai entrati nel Canone e studiati nelle scuole superiori, per intenderci, tendiamo a dimenticare che furono uomini come noi, spesso alle prese con i problemi di tutti i giorni, come quello, apparentemente banale, di sbarcare il lunario e di guadagnare abbastanza per garantirsi una vita dignitosa. “Con la cultura non si mangia” ha detto tempo fa un politico italiano e, se spesso dobbiamo dargli ragione, tendiamo a pensare che sia un problema dell’oggi, di questa società che spesso svilisce l’attività letteraria e culturale. Nel secolo scorso, purtroppo, le cose non erano molto diverse se il problema del sostentamento ha riguardato, in alcune fasi della loro vita, anche i più grandi. È il caso di Eugenio Montale. Il poeta, futuro premio Nobel, a fine anni ’30 si trovò in serie difficoltà economiche dopo il licenziamento dalla direzione del «Gabinetto Viesseux». Per guadagnarsi da vivere si dedicò, in quella fase della sua vita, a una intensa attività di traduzione, da più lingue (inglese, francese, spagnolo). Attività, questa, che a Montale piaceva ma, spinta a una tale congestione e impegno, da metterlo in serie difficoltà nel rispetto dei tempi di consegna. Inoltre, in quella fase, i testi gli venivano proposti, a seconda delle esigenze, via via, degli editori e degli impresari teatrali. Queste vicende, che portano con sé anche tanti aneddoti interessanti, sono ricostruite in un’approfondita introduzione che accompagna un libro di recente pubblicazione: Giulio Cesare di William Shakespeare nella traduzione, appunto, di Eugenio Montale (Interlinea, 2023). La trama dell’opera ripercorre il clima in cui maturò l’uccisione di Cesare, a opera dei cospiratori Bruto e Cassio, e l’emergere delle figure di Marco Antonio e Ottaviano.
Nata nel 1953 su richiesta di Paolo Grassi e di Giorgio Strehler per il Piccolo Teatro di Milano, questa traduzione era rimasta finora inedita, ma meritava di essere riscoperta e presentata a un pubblico più ampio, perché ci dice molto di Montale e del suo modo di tradurre. Grassi e Strehler vogliono un testo da mettere in scena e non da pubblicare. Hanno già sfruttato alcune traduzioni di Shakespeare di Salvatore Quasimodo, ma ora vogliono all’opera un altro poeta. La genesi dell’opera è travagliata. Contattano Montale ad agosto, ma il poeta risponde di non avere il tempo materiale di completare l’opera nei tempi richiesti, ossia ottobre. Con qualche dilazione sui tempi, l’accordo si troverà poco dopo. Tra l’altro, il poeta riceverà un compenso ridotto, perché parte sarà devoluta al Teatro.
La vita, solo teatrale, dell’opera, ha significato una settantina di messe in scena con il Piccolo Teatro nel 1953-54 in Italia e in Sud America (Buenos Aires, Montevideo, San Paolo, Rio de Janeiro) e poi qualche breve ripresa a opera di altre compagnie.
Ciò che forse interessa di più, a tanti anni di distanza, è sottolineare le modifiche che Strehler fece al testo originale montaliano per metterlo in scena. Montale riteneva che “una buona traduzione è quella che non sembra tale, che usa la lingua d’oggi, salvo casi eccezionali”. Nel suo Giulio Cesare troviamo così: sono poco sportivo (detto da Bruto), le popolazioni ci han dato i tributi col contagocce, ti darò un cazzotto, sbarbatello. Ogni tanto Strehler non apprezzava e, nella messa in scena, sportivo e contagocce spariranno. A volte, invece, Montale traduceva con versi Danteschi e non proprio semplici e popolari: anime bennate, lamentose grida, digli di raccontarti, col solito agrume. Bellissimo è il passo in cui Marco Antonio, con abile retorica, aizza la folla contro i congiurati, decantando le lodi di Cesare e accusando indirettamente Bruto:
Amici, romani, concittadini, prestatemi orecchio. Vengo a seppellire Cesare, non a farne l’elogio. Il male che gli uomini fanno, sopravvive ad essi; il bene spesso sepolto con le loro ossa; e sia così di Cesare. Il nobile Bruto vi ha detto che Cesare fu ambizioso; se lo era, fu una colpa e Cesare l’ha scontata duramente. E qui, con licenza di Bruto e degli altri – poiché Bruto è un uomo di onore e anche gli altri lo sono – io comincio a parlare al funerale di Cesare. Fu amico mio, fedele e giusto verso di me, ma Bruto dice che fu ambizioso e Bruto è uomo d’onore. […] Quando i poveri piangevano, Cesare lacrimava; l’ambizione dovrebbe esser fatta di stoffa più grezza; ma Bruto dice che Cesare fu ambizioso e Bruto è uomo d’onore. Avete tutti veduto che sul Lupercale io gli ho offerto tre volte la corona regale. L’ha rifiutata tre volte: forse per ambizione? Eppure Bruto dice che fu ambizioso; e Bruto è certo un uomo d’onore […].
Forse non sarà la migliore traduzione che Montale ha fatto di Shakespeare, e probabilmente l’opera non gli era molto congeniale. Torna alla ribalta il punto da cui siamo partiti. Montale non sceglie di tradurre Giulio Cesare, lo traduce per ragioni economiche, per onorare un impegno preso.
“Quando Montale traduce i sonetti e i song del Sogno di una notte di mezza estate compie una libera scelta, indotto da ragioni di poesia e dal piacere di misurarsi con un ambito consono alla sua sensibilità artistica; – commenta Luca Carlo Rossi, curatore del volume – quando si applica al testo shakespeariano assolve invece un incarico ricevuto e il suo movente primario sono le necessità economiche come precisa il 5 gennaio 1957 in una lettera a Luigi Russo”.
La traduzione insomma, pur eseguita con scrupolo e intento stilistico non ha l’adesione intima e la spontaneità di altre opere scelte per passione e gusto personale. Lo stesso Montale non la considera tra le sue migliori. Scriverà: “le traduzioni migliori mie sono state Billy Budd di Melville, e poi l’Amleto di Shakespeare. Giulio Cesare credo non sarà mai pubblicato”.
Oggi noi riconosciamo comunque l’inconfondibile stile di Montale e l’opera di un uomo del suo tempo alle prese non solo con i versi di Shakespeare, ma anche con altri bisogni ed esigenze ben più semplici e terrene.
Adoro Montale ❕🤍