di Marisa Paladino
Una donna caotica, intensa e interamente fuori dalla realtà della vita. Clarice Lispector si descrive con queste parole in una rara intervista del febbraio 1977 al reporter Júlio Lerner di TV-2 Cultura. Ma chiede anche di divulgare l’intervista dopo la sua morte, forse consapevole della malattia, morirà infatti per cancro alle ovaie il 9 dicembre 1977 a Rio de Janeiro. Un desiderio che viene rispettato, l’intervista sarà divulgata soltanto dieci mesi dopo. Quando ha intrapreso la professione di scrittrice? Alla domanda del giornalista lei, con ferma pacatezza, risponde di non avere intrapreso nulla, ha scritto fin da ragazzina e lo scrivere, nel tempo, è diventato un modo di preservare la sua libertà. La scrittura del resto, quando oggettiva il Sé narrativo, serve certamente a comunicare una storia, ma lo sviluppo di una trama per la Lispector probabilmente è riduttivo, lei tenta, disperatamente, di narrare ciò che accade oltre la storia e di assecondare quel bisogno di giungere a rendere coesa l’identità significativa del Sé. La sua è una scrittura di scavo, che rivela la difficoltà di accedere al mistero della vita, nonostante sia armata di una considerevole perizia di linguaggio, insieme consapevole e oggettivante. Clarice Lispector attraversa questo suo dono con i tormenti di chi avverte l’indicibilità dell’essere, ma scontando anche la sofferenza di un’origine cancellata dai pogrom che investirono gli ebrei nell’Ucraina, sua terra d’origine, nei primi anni ‘20. La famiglia scappò dagli stermini mettendosi in salvo in Brasile, tutto questo significherà perdita delle radici e sradicamento violento da quei luoghi; non a caso, nei romanzi della scrittrice, l’esistenza dei protagonisti spesso si svolge in una dimensione di immanente presente, costretta in uno spazio di confine che spinge alla tormentosa ricerca di una ragione che possa avere senso. In gioco, come accade in ogni crisi esistenziale, è anche l’ineffabile presenza del divino, mentre il linguaggio colmo di domande, anche le più scabrose del nostro essere al mondo, finisce per infrangersi sul limite dell’impossibile, salvo il repentino balenio del senso rivelatore disperatamente cercato. Un’espressione narrativa, quella della Lispector, che scandaglia l’esperienza umana nei vertici più alti o negli abissi più indicibili, la lettera del 6 gennaio 1948 alla sorella chiarisce meglio il concetto,
Per adattarmi all’inadattabile, per vincere le mie ripulse e i miei sogni, mi sono dovuta tagliare gli artigli – ho tagliato in me la forza che avrebbe potuto fare male agli altri e a me stessa. E così ho tagliato anche la mia forza.
La scrittrice è di ritorno in Brasile, dopo avere girato l’Europa con il marito diplomatico, e confessa di essere molto cambiata; non le va più di fare cose soltanto per dovere o per guadagnarsi il paradiso, o ancor di più per adesione ad ordine patriarcale e inamovibile, a costo di patire il dolore e la sofferenza che ogni ordine sovvertito fa scontare all’animo ribelle. La donna è pronta alla vertigine dell’abisso ed alla ricerca di quel perdono, che è innanzi tutto perdono per sé stessa. Il cambiamento, coerentemente, ne accompagna la scrittura, lei non si rassegna alla mancanza di parole per dire e combatte coraggiosamente contro ogni rassegnazione, sia essa all’aporia che al più afasico dei silenzi, riuscendo, in maniera sorprendente, ad integrare l’indicibilità del linguaggio comune nella vita interiore e, quindi, nella scrittura. Il rischio della frammentazione del sé viene superato proprio perché la violenza delle emozioni si ricompone nella globalità della persona. Emblematica di questa scrittura, che produce spessore anche nell’esistenza della protagonista, è un’opera della maturità cioè il lungo romanzo-non romanzo La passione secondo G.H. del 1964, annoverato come il punto più alto della sperimentazione linguistica della scrittrice. Il libro è pubblicato a Rio de Janeiro con il titolo A paixão segundo G.H., in Italia sarà tradotto soltanto nel 1982. Ma la passione, con la dirompenza che la connota, cosa è mai per Clarice Lispector? La risposta è tutt’altro che superficiale o riduttiva. In gioco, infatti, è un sostrato di esperienze personali che costituiscono le fondamenta di questa condizione, tenuto conto che l’etimo del termine rimanda alle emozioni più profonde di ogni essere umano. La passione, in relazione al significato del verbo latino pati, “patire, soffrire” da cui deriva, indica per il soggetto che vi è esposto una condizione di passività, di cui si subiscono potenti effetti, sul piano sia fisico sia psichico. Oltre la definizione, però, è la sperimentazione diretta della passione che aiuta a comprendere meglio gli stati emotivi, sempre diversi e mutevoli, che essa muove. La protagonista dell’opera, che conosceremo soltanto attraverso le iniziali del nome, dopo un evento accidentale s’incammina in un tormentato viaggio della mente, l’autrice, del resto in un incipit del libro invita alla lettura, possibilmente, solo i lettori che hanno un’anima già formata. Occorrono gli attrezzi necessari per meglio decifrare G.H., una donna agiata e senza problemi, ma solo in apparenza, il suo procedere emotivo, a tratti distopico, questuante ed irrisolto, ma bramoso di fare luce nella coscienza, si rivela nel disperato tentativo di arrivare al nucleo centrale e più autentico del sé, oltre ogni sofferenza che l’operazione impone. Il romanzo rinvia a un imprimatur nella vita di Clarice Lispector, nata nel 1925 in Ucraina e naturalizzata in Brasile, cioè perdita della terra di nascita e perdita della madre, morta a seguito di uno stupro da parte di un soldato durante un pogrom. La famiglia Lispector è in fuga tra Romania e Germania, quindi in Brasile cambia la propria anagrafica, mentre le tre figlie a scuola studiano pure ebraico e yiddish; la piccola Chaya in ebraico “essere vivente” inteso come vita, ora si chiama Clarice, in un chiaro rimando alla luminosità. A dispetto del nome il carattere della scrittrice riesce ostico, a tratti antipatico, la sua è una natura ombrosa ed inquieta, a modo suo, però, anche empatica e con sprazzi di giocosità quasi infantile. Scrive fin da ragazzina, consegue intanto la laurea in legge. Il romanzo d’esordio a soli vent’anni Vicino al cuore selvaggio sorprende per lo stile e la maturità introspettiva, scriverà comunque sempre in portoghese, mentre sposa un diplomatico Maury Gurgel Valente che la porterà a soggiornare in Europa e negli Stati Uniti. La passione secondo G.H. è anch’esso una grande sorpresa, nonostante la trama scarna e le sue atmosfere spiazzanti. Una signora molto benestante si ritrova nel suo splendido attico a fare i conti con la domestica Janiar che ha smesso di prestare servizio da lei. Una mancanza concreta, che va in parallelo con quella strana mancanza di una perduta terza gamba, che dava stabilità alla protagonista, come racconta sin dalla prima pagina del libro, di più non viene rivelato, anche se alla fine si riannoderanno le vicende. La perdita, in realtà, è anche, in altro, senso libertà, e la libertà, si sa, può creare eccessi di vertigine, per quanto non si riconosce, se non addirittura spavento
Sono così spaventata che potrò accettare di essermi perduta solo a patto di immaginare qualcuno che mi stia dando la mano.
A questa mano G.H. non riesce a collegare un volto, con gli occhi e la bocca, il suo straniamento la porterà al crollo delle certezze, dilatandosi di fronte allo spaesamento del mondo ed al dolore della perdita che lascia disorientati.
Quello che probabilmente ho chiesto e alla fine ho avuto, arriva e mi lascia tuttavia carente come un bimbo che da solo se ne va per il mondo. Così carente che soltanto l’amore dell’universo intero per me potrebbe consolarmi e compiermi, soltanto un amore tale da fare vibrare perfino la cellula-uovo delle cose sotto l’effetto di ciò che io sto chiamando amore. Di ciò che in realtà mi limito a chiamare, ma senza saperne il nome.
Il terreno di innesto del romanzo è questo. G.H. è una donna dotata di bellezza e capacità nella scultura, la domestica via, decidere allora di mettere in ordine nella zona di servizio, una vocazione all’organizzazione che le era stata sottratta dalla sua agiatezza. La stanza della domestica, nei “bassifondi” dell’appartamento, cioè nella zona di servizio, è però assolutamente ordinata, come il ripostiglio, prima ubicato proprio in quella stanza, questo provoca in G.H. un moto di fastidio, forse perché non è abituata a vedersi contraddetta nei suoi progetti. La successiva vista di un affresco a carboncino, su di una parete, con tre nudi di un uomo, di una donna e di un cane, a grandezza naturale, contribuisce a far crescere in lei fastidio e smarrimento. Si sente penetrata nell’intimo, mentre quest’ambiente, pur parte del suo elegante e sicuro appartamento, diventa improvvisamente lo spazio-specchio di un’interiorità sconvolta. Il successivo incrocio con una blatta che fuoriesce dall’anta dell’armadio disintegra in G.H. ogni residua certezza della sua identità, nel suo ambiente sociale riconoscibile e sicura – le sole iniziali del suo nome sulle sue valige, del resto, lo testimoniano. Il confronto con l’animale, una vita primordiale e senziente, coincide con il processo di implosione del suo sé più profondo, la donna, allora, intraprende un corpo a corpo con l’orrido insetto, che altri non è un corpo a corpo con la propria materia psichica. Tenta di uccidere l’animale sbattendo l’anta violentemente, la materia bianca e molle fuoriesce dal corpo spezzato e l’inumano, improvvisamente, diventa provocatorio dell’umano, quella forma primordiale, del resto, ha abitato il pianeta già oltre 3 milioni e mezzo di anni fa. Lo scontro si dilata, involgendo anche con l’eternità, e la passione di G.H. arriva a risuonare di echi addirittura biblici con i suoi richiami agli animali immondi, mentre la protagonista si avverte così:
Mi sentivo immonda come la Bibbia parla degli immondi. Perché mai la Bibbia si è talmente occupata degli immondi e ha fatto un elenco degli animali immondi e proibiti? Perché, se, come gli altri animali, anche quelli erano stati creati? E perché l’immondo era proibito? Io avevo compiuto l’atto proibito di toccare ciò che è immondo.
La donna si scopre, di fronte all’insetto morente, come di fronte al vuoto primordiale, all’insaziabilità di una fame ancestrale che può placarsi soltanto con un gesto estremo e rivoluzionario, ingerire ciò che resta della blatta, come fosse un’ostia, salvo a provarne vomito ho cominciato allora a sputare, a sputare furiosamente quel sapore di nulla (…) Stavo sputando me stessa, senza arrivare mai a sentire di avere finalmente sputato tutta intera la mia anima. Il febbrile corpo a corpo tra G.H. e la blatta arriva addirittura a misurarsi con la grande prova: Io, che avevo pensato che la più grande prova di trasmutazione da me in me stessa sarebbe stata quella di mettermi in bocca la pasta bianca della blatta. E che in tal modo mi sarei avvicinata al … divino? a ciò che è reale? Sì, il divino per me è il reale. Negli interstizi della tormentata narrazione si inserisce anche la memoria di eventi di vita materiale, flash quasi onirici di accaduti della ‘precedente’ vita della protagonista, a sfondo anche drammatico, superati grazie alla nuova umanizzazione; sì, perché la donna è oramai protesa oltre quel gioioso orrore della vita neutra grazie a ciò che potremmo chiamare in modi diversi, consapevolezza o ritrovamento di un sé? G.H. intanto avverte il singhiozzo della mia vita che si spezzava per procrearmi. Non riveleremo quale e cosa sia la passione per lei, né la cosa più violenta che possa esserle accaduta, certo è il compiersi di un approdo. Un occhio vegliava sulla mia vita. Quell’occhio ora lo chiamavo verità, ora morale, ora legge umana, ora Dio, ora me stessa. Io vivevo talmente più dentro uno specchio. A un paio di minuti dalla mia nascita avevo già perso le mie origini (…) eppure è proprio dal cercare e non trovare che nasce la cosa che non conoscevo, e che all’istante riconosco. Il linguaggio è il mio sforzo umano. Per destino devo andare a cercare e per destino torno a mani vuote. Però – ritorno con l’indicibile. L’indicibile mi potrà essere dato solo attraverso il fallimento del mio linguaggio. E solo quando la costruzione si incrina io ottengo ciò che questa non è riuscita a ottenere. Sono l’Alfa e l’Omega, prima e ultima sillaba di una Vita, la parola spogliata del pregresso significato, il trionfo ed anche il fallimento del linguaggio che conduce, paradossalmente, a un’ultima parola possibile, La vita mi è, e non capisco ciò che dico. E allora adoro… sarà il caso di aggiungere, oltre la Passione.