Scendi a prendere un gelato?

“Una di queste sere ci andiamo a prendere un gelato?” Quanti di voi in questi giorni lo hanno detto? O hanno ricevuto questo invito? Capita un po’ a tutti, no? Ci avete mai fatto caso, a cosa c’è dietro queste semplici parole?
Prendiamoci un po’ di fresco.
Stiamo all’aperto.
Facciamoci una passeggiata.
Ma anche, chiacchieriamo.
Passiamo del tempo insieme.
Raccontiamoci la vita.
Quante cose si possono fare mentre si mangia un gelato! Non è solo l’invito a gustare un cono, ma dietro queste semplici parole c’è molto di più.

Ricordo che quando ero bambina nei pressi di casa mia, a Cinecittà, non c’era una gelateria. Non c’era nemmeno il bar all’inizio, poi ne hanno aperti due, ma io ero già grande. Era una zona nuova, in espansione, con tante case popolari e tra i pochi servizi essenziali la gelateria non era contemplata.
Era estate, faceva caldo e noi cenavamo sul terrazzo che per fortuna era molto grande e ci consentiva di stare al fresco. Una sera sentimmo suonare una campanella molto simile a quella che a scuola segna la fine della lezione. Non sapevamo cosa fosse e ci affacciamo per guardare: un camioncino si era fermato proprio davanti al portone e di lì a poco vedemmo una piccola folla, fatta di adulti e bambini. Io vivevo al sesto piano e tra altezza e alberi che coprivano la visuale non si capiva bene cosa stesse succedendo. La nostra curiosità rimase insoddisfatta.
Il giorno dopo successe la stessa cosa.
Campanellina, balcone, camioncino, piccola folla.
Vidi la mia amica Lisa che scendeva con il papà e la chiamai dal balcone.
“C’è il gelato” mi disse “scendi?”
Chiesi il permesso a mio padre, che mi accontentò, anche lui incuriosito da quella novità e mi accompagnò insieme ai miei fratelli.
Il camioncino si fermava a metà strada tra un palazzo e l’altro, apriva la finestrella laterale e iniziava a vendere gelati. Un cono costava 500 lire. Quando volevamo esagerare ci mettevamo pure 100 lire di panna. Sia chiaro, la panna era già compresa, ma pagando quelle 100 lire in più ci sentivamo in diritto di fare richieste particolari: la panna la volevamo pure dentro al cono, mica solo sopra! Erano le 100 lire del capriccio, quelle che ci facevano sentire dei re, pure se lì non c’era niente. Mi scocciava solo di essere troppo bassa da non riuscire a vedere i gusti, ma tanto io prendevo sempre nocciola e pistacchio, come adesso del resto.
La campanella suonava tutte le sere, in un orario che andava dalle 21:00 alle 22:00 e per noi ragazzini era diventato un appuntamento fisso. Finito di servire i clienti, il gelataio richiudeva la finestrella, si rimetteva alla guida, si spostava di 500 metri o poco più, suonava di nuovo la campanella e ricominciava: altri clienti, altri gelati. Non so di preciso che giro facesse, ma di certo girava tutto il quartiere.

L’anno dopo, inaspettatamente, verso metà maggio, sentimmo di nuovo la campanella. Ricordo il nostro sguardo e i sorrisi, perché quella campanella non era solo un richiamo: era l’estate che arrivava! Era la libertà!
Diventati un po’ più grandi, infatti, i genitori ci permettevano di restare a chiacchierare nel cortile, controllandoci dalle finestre. Alla fine era tutto lì, il gelato durava pochi minuti, ma ci consentiva di restare con gli amici fino a tardi. Era molto più di un cono. Era compagnia, era amicizia, erano chiacchiere e confidenze! E questo ci faceva sentire grandi!
Oggi ho 5 gelaterie nel giro di un chilometro e il camioncino dei gelati probabilmente si sarà riconvertito in qualche altra attività, ma io quando ho voglia di vedere degli amici, li chiamo e chiedo: “Scendi a prendere un gelato?”

Monica Face

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