L’amore sconfinato di Frank O’Hara

La botta giunse fulminea alle prime luci del mattino e lo scaraventò così lontano che non ebbe modo di capire cosa fosse accaduto. Ora Frank si trovava in un posto a lui ignoto. Non era sveglio, questo lo comprendeva. Udiva voci concitate muoversi attorno a lui, gli odori si fermavano a un passo dalle sue narici e un immobile fulgore ceruleo pareva aver preso il sopravvento sullo spazio in cui era immerso. Forse doveva soltanto aspettare che lo venissero a chiamare. E nel mentre, che mi potrei inventare per riempire il tempo? Frank se lo chiedeva ben sapendo che l’immobilità non gli era mai piaciuta, la riteneva parente stretta della morte. E se cercassi di capire dove sono finito, insisteva a chiedersi Frank. E con quello che gli sembrò un semplice movimento delle pupille, una miriade di piccoli pezzi di vetro colorato gli si riversò sul viso nascondendolo, come se con fare distratto avesse infranto lo specchio nel quale si stava rimirando. Non era colore però quello che ricopriva quei frammenti, che non sembravano fatti di vetro tanto gli bruciavano la pelle sulla quale si erano come saldati. Erano briciole di immagini quelle che aveva scambiato per colore e ciascuna di esse riproduceva un breve lasso della sua esistenza. Come un segugio ben addestrato, cominciò a ispezionare con attenzione quei cocci. Ecco come avrebbe ingannato il tempo. Dopotutto, osservare era stata una parte essenziale della sua vita. E scrutando aveva concepito un suo personale modo di comporre versi. Ecco allora i genitori e la tenera ritrosia con cui ormai adolescente si affannavo a spiegargli l’enigma della sua data di nascita. Quanti compleanni aveva festeggiato in giugno? Aveva perso il conto ormai, certo erano stati parecchi considerate le numerose festicciole date invitando i compagni di scuola. Frank non aveva sospetti della vergogna che velava di malinconia i visi dei suoi genitori. A volte, nella maniera sciocca che hanno i ragazzi di fantasticare sulle origini della propria vitalità, Frank amava farla risalire alla primavera. Era un semplice gioco. Il divertimento di un ragazzo dal carattere aperto plasmato da un forte impeto di pura gioia. E quando il timore ingenuo di suo padre e sua madre ritenne che Frank fosse pronto, gli rivelarono che in realtà lui era nato una luminosa mattina di marzo, non a fine giugno. Era stato concepito fuori dal matrimonio e se ne vergognavano. La carezza di Frank placò le loro paure. Frank era immune da qualsiasi barbarie dell’umore che conduceva al giudizio spietato. Il loro figlio aveva ricevuto il dono miracoloso di saper accogliere la vita in ogni suo aspetto senza rancore. Era capace di amare senza porre condizioni, Frank. E presto lo avrebbe mostrato creando poesie che avrebbero reso senza tempo il suo brevissimo respiro in questo impervio mondo.

Il ritmo della musica e quello del vivere quotidiano. Il primo, Frank lo aveva nel sangue fin da piccolo. Lo mettevano a sedere davanti a un pianoforte e alle prese con una necessità frutto del mistero, pigiava svelto i tasti sprigionando una ritmica libera e contagiosa. Sarebbe diventato un insigne musicista, fremevano i suoi genitori. Lo mandarono in un conservatorio di Boston, dove Frank si diplomò a pieni voti. Era il 1944, la guerra sembrava essere a un passo dalla fine. Frank si arruolò nella marina. Fu mandato nel Pacifico dove le truppe americane davano battaglia a quelle giapponesi. Aveva appena compiuto diciotto anni e stava per fare quella che si rivelò una scoperta fondamentale per il poeta che sarebbe stato di lì a venire: come far proprio l’incedere quotidiano delle persone comuni. Fu grazie alla rigida disciplina impostagli nelle forze armate che sviluppò una singolare capacità di osservare gli altri, astraendosi dalla caotica routine che lo circondava per afferrarne anche solo un misero brandello di mistero in grado di carpire il chiarore unico di esistenze in apparenza insignificanti. E quando terminato il conflitto rientrò in patria, poté affinare questa sua solitudine contemplativa per mezzo degli autori che frequentò da lettore negli anni universitari. Ricevette una borsa di studio riservata ai veterani. Si iscrisse a Harvard. Con la sua inesauribile curiosità fanciullesca, Frank intraprese una fervida esplorazione delle parole di Rimbaud e Mallarmé, Pasternak e Majakovskij, approdando a una semplice conclusione: sarebbe stato un poeta in questa vita. E così come la sua fame di esperienze non concepiva steccati, avrebbe mescolato i suoi versi al sentimento indomabile che nutriva per l’arte contemporanea e alle sue impetuose passioni per le notazioni dei filosofi e le contorsioni dei teologi. Tutto questo però sarebbe eruttato dal trambusto senza freni delle vite degli altri, che Frank avrebbe raccolto con infinita gratitudine per via di quel suo meticoloso vedere, rilasciandolo poi tramite una scrittura in versi capace di farsi colloquio ordinario e inesausto grido dell’intimità. Erano da poco cominciati gli anni ’50 e la successiva tappa per Frank non poteva che essere la metropoli che aveva cominciato a rendere insonni i suoi abitanti, New York. E sarebbe stata l’ultima febbrile scheggia per quell’uomo caloroso che anelava a un amore sconfinato.

Arrivato in città, Frank conobbe Joe. Divennero amici, poi amanti. Presero in affitto un piccolo appartamento. Erano giovani, si stavano divertendo. E Frank viveva fino in fondo quel sentire che mai aveva nascosto. Ottenne un lavoro al MoMA e cominciò a curare le mostre di una nuova generazione di artisti che avrebbero messo a soqquadro quel decennio dall’apparenza compassata. Joe aspirava a fare il poeta e un giorno lontano avrebbe scritto di quel suo affetto incondizionato per Frank. Impossibile non voler bene a quest’uomo sempre sorridente, sempre disposto a capire, sempre pronto a venire incontro al prossimo. Frank si lasciò condurre per mano da Joe e insieme si immersero nelle frenetiche notti newyorchesi, passando dagli studi di quei pittori che accanendosi sulla tela scoprivano nuovi mondi da raccontare alle cantine le cui pareti sembravano esplodere sotto il tallone forsennato del jazz, fino alle prime letture pubbliche di versi che cominciavano a mostrare innovative figure di poeti mai conosciute prima. E continuava a scrivere Frank, prendendo da tutto e da tutti. A mano a mano che le sue poesie si diffondevano, risultò chiaro che la sua voce non somigliava a nessun’altra. Tutti a questo punto lo riconoscevano come il più luminoso poeta urbano della sua generazione. L’amore incondizionato era alla fine giunto, pensò per un attimo Frank. E quel pensiero insistente lo tradì e ciò gli fu fatale. Per ben due volte. Una compagnia di nuovi danzatori era appena sbarcata in città. Proveniva dal Canada e Frank desiderava vederla. Prese i biglietti per sé e per Joe. Arrivata la sera dello spettacolo, seduto in platea accanto all’amico accadde qualcosa di inaspettato. Alzato il sipario, una figura che pareva non appartenere per grazia e bellezza a questo mondo, cominciò a librarsi nell’aria come se divine ali invisibili la tenessero sospesa e le permettessero quei soli semplici gesti capaci di rendere per pochi secondi felice anche l’ultimo degli esseri umani. Frank si innamorò di Vincent immediatamente. Il mattino seguente si presentò in teatro, desiderava incontrarlo. Desiderava conoscerlo e amarlo. Desiderava farsi amare. Solo così, ora lo sentiva, l’amore incondizionato degli altri avrebbe avuto il senso più autentico. E a quella corte impetuosa alla fine Vincent cedette, non potendo resistere a quell’uomo intriso di una così profonda fede nella bellezza della vita. Quando la compagnia di ballo lasciò New York, Vincent rimase in città accanto a Frank. E vi sarebbe rimasto fino alla sua morte, sette anni più tardi.

Immerso nel proprio sonno comatoso, Frank cominciava ora a intuire. Aveva riletto ognuno dei tasselli che gli erano piombati in faccia. Quel mattino di luglio lui e Vincent erano andati a fare il bagno a Fire Island con degli amici. Era felice Frank, amava e si sentiva amato senza riserve. Era felice che cominciassero a esistere posti come quella spiaggia in cui gli omosessuali potevano mostrarsi in piena libertà senza alcun infingimento. Certo, erano ancora gravosi i passi da compiere affinché quella comunità dileggiata da sempre potesse considerarsi alla pari di tutti gli altri, ma gli anni ’60 sembravano animati da grandi speranze. Molto restava da fare, molto si sarebbe fatto. E quanta poesia ciò gli avrebbe ispirato. Era euforico, Frank. La sua insistita bontà e la fiducia nel genere umano lo avrebbero tradito di lì a poco ore. Fu una giornata di bagni e di musica, la mente osservatrice di Frank prendeva nota di tutto. Poi il cibo e i falò. Avrebbero passato la notte lì e il giorno dopo sarebbero tornati a casa. Frank avrebbe scritto una delle sue mirabili visioni di quella giornata di festa. E mentre registrava con gli occhi le risate e gli scherzi, le carezze e i sussurri che lo circondavano, assorto in quell’isolato silenzio interiore Frank gettò uno sguardo di infinita gratitudine a Vincent. Non avrebbe chiesto niente altro in eterno. L’indomani, quando ancora l’alba non era piena, mentre si preparavano a lasciare la spiaggia a piedi dopo che un guasto aveva bloccato il taxi che avevano chiamato, avvertirono l’incidere pesante di un motore. Era una grossa jeep. Piombò improvvisa e veloce su di loro. E l’uomo che desiderava un amore sconfinato fu investito in pieno e scagliato lontano. Il ragazzo di ventitré anni alla guida di quel mezzo tradì l’anelito di Frank. Quel ragazzo del luogo non amava Frank. Non amava quelli come lui che avevano fatto di Fire Islands la loro casa. E in quel letto di ospedale, nelle ore seguenti a quella infausta mattinata, ciò che per mezzo della memoria aveva ripercorso nel profondo dormiveglia in cui annaspava lasciò il posto a lacrime invisibili, che copiose scesero sul suo volto prima che si addormentasse per sempre.

Alex Marcolla

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