Torna Ulisse, alle tue radici

La primavera non l’ho trovata tanto nei campi o, diciamo, in un Botticelli quanto in una piccola icona rossa della Domenica delle Palme.
Così pure un giorno, l’ho sentito il mare guardando una testa di Giove. Quando scopriamo le segrete relazioni dei concetti e li penetriamo sin nel profondo arriviamo a un’altra forma di chiarezza che è la Poesia.
E la Poesia è sempre una, come uno è il cielo.
La questione è da quale parte uno vede il cielo. Io l’ho visto proprio stando in mezzo al mare aperto.
(Odysseas Elytis, Incenso al migliore da Il piccolo marinaio, Donzelli, 1985)

Che cosa sono le radici? Cosa legano, cosa trattengono e cosa ancora lasciano andare attraverso di loro?
Quando pensiamo alle radici viene naturale rivolgere l’idea a quelle di un albero, a un ulivo secolare o a una grande quercia, oppure alle nostre radici familiari o spingere il pensiero, con uno sguardo più lontano, a quelle dalle quale proviene il retaggio del nostro patrimonio storico e della nostra identità culturale, un tesoro umano vivente fatto di tradizioni, di costumi, di usanze, di antichi canti e della lingua che ne tramanda la continuazione per farne vivere il senso di appartenenza.

È meno scontato invece accostare al comune immaginario delle radici il tempo sospeso, il tempo immobile: quello con cui il vento gira da secoli imperturbato intorno alle colonne di un antico tempio, o quello del mare che abita dentro un gruppo di anfore millenarie adagiate sul fondale. Il tempo dei poeti.
E invece, se lo leggiamo bene, è proprio di queste radici originali che siamo. Ce lo indica la poesia, da quella antica, la cui voce vive e rivive nell’eco del mito e nella luce arcaica dei luoghi di età classica, a quella moderna e contemporanea, con tutte le sfumature e le incrinature che, attraverso le parole, ci restituisce lo specchio del tempo che viviamo, quello di una umanità fragile e di una società vulnerabile.
Da Omero a Rilke a Dylan Thomas, a me, a voi, il tempo scorre inesorabile nutrito alla stessa radice: quella della luce, sia essa fulgente dell’aurora più luminosa o della più buia tra le notti tenebrose.

Lascia che tutto ti accada: bellezza e terrore.
Si deve sempre andare: nessun sentire è mai troppo lontano.
(Rainer Maria Rilke, Libro delle Ore)

“Nessun sentire”, come nessun andare. Lungo il cammino è lo spirito guida del viaggio, dei luoghi attraversati e delle voci dei canti che risuonano, il custode della memoria del tempo sospeso, l’oracolo della scoperta di se stessi, a partire proprio dalle radici.
Come Ulisse che dopo il tanto sospirato ritorno a Itaca è chiamato profeticamente a riprendere il mare.

allora parti, prendendo il maneggevole remo,
finché a genti tu arrivi che non conoscono il mare,
non mangiano cibi conditi con sale,
non sanno le navi dalle guance di minio,
né i maneggevoli remi che son ali alle navi.
(Tiresia a Ulisse, Odissea, Libro XI, vv. 121-125)

Nelle infinite sfumature di blu della sua pelle d’acqua, è il mare che ci parla la lingua più antica. E la sua radice è una piccola pietra di sale, di “muto bianco sale”. Di questo limpidissimo cristallo minerale è la memoria-radice della nostra natura marina, come fossile di un antico mare.
La sua maestosità è un monito che ricorda e ci insegna quanto è poco quello di cui abbiamo bisogno. La sua immensa ricchezza ci spinge a navigarlo dal primo legno messo in acqua a galleggiare, uomini e eroi di ogni tempo: da una costa all’altra, dal mito alla leggenda, “Ulissi” di qualunque nome, siamo tutti alla ricerca della luminosa bianca radice del mare, e da quella puntiamo la rotta verso la memoria di tutte le storie che aspettano solo di essere vissute e raccontante, ancora e poi ancora.

Viaggiare è un bisogno primitivo. Alcuni viaggi, specialmente quando si tratta di alcuni ritorni negli stessi luoghi, hanno il potere di rompere i confini e di cambiare l’ordine della storia, come se gli orizzonti del passato venissero a farci visita per accompagnarci in un corso nuovo degli eventi e dei luoghi (ri)visitati. È necessario abbandonare la paura dello smarrimento e aprirsi alla redenzione dei luoghi e delle loro radici, come per il prodigio di un tempo che non è più – o sarebbe più giusto ammettere che non è mai – “un tempo unico”, perché nelle parole del poeta tutto è ricondotto e ricomposto alla forma originale, per rinascere e rivivere infinite volte la sua storia, rinnovandosi continuamente.

Proprio così. Per lungo tempo ho creduto che il senso di appartenenza si potesse riconoscere facilmente nella memoria di un tempo cristallizzato: la città che ci ha visti nascere, le strade conosciute e percorse mille volte, il quartiere dove sono cresciuto, la casa a cui tornare, come un Ulisse nostalgico della sua Itaca. Ma se non si riconosce la vera radice, se non si tende a quella, tutto si dissolve e si dissipa in una memoria di cartoline, buone soltanto a restituire con malinconico rimpianto l’immagine della copia sbiadita di ciò che abbiamo attraversato.

“Ad avere importanza è il movimento, il movimento parallelo dell’anima”.
(Odysseas Elytis, Il metodo del dunque, Donzelli, 2011)

Così nel movimento, nella ricerca della nostra prima radice, ci accorgiamo di appartenere a qualcosa di molto più grande e anche di infinitamente più piccolo. Scopriamo allora che le nostre radici non sono solo nella città e nella casa che ci hanno visti venire al mondo, ma sono anche nella lingua che non conosciamo, nel paese dove non abbiamo mai abitato, per le strade dove non siamo ancora andati o dove non siamo più tornati.
Tutto ci appartiene allora come fosse un’infanzia che più non ricordiamo di aver vissuto. Chi ha già provato questa sensazione, o chi la proverà mettendo se stesso sulle sue radici, sa già (o lo scoprirà) che quello che si percepisce nel corpo è una specie di sprofondamento tutto in salita. È nel corpo che si avverte la gioia della fatica; è la fatica che risveglia in noi il desiderio di cercare e ci restituisce al mondo da cui siamo venuti e a cui facciamo ritorno.
Tutto si rinnova di viaggio in viaggio, di luogo in luogo; nessuno scorcio assomiglia all’altro, ed è come se attraverso l’aria che ci precede sul cammino tutto venisse continuamente creato nell’istante in cui lo sguardo incontra e trattiene il fiato del cielo, come un respiro che entra nelle pupille e rivive nell’eterna sfida al tempo che passa, quasi che il paesaggio attraversato, cresciuto dentro il respiro, redima ogni volta quello che l’immagine o il ricordo cedono, e quello che il luogo presente restituisce.

Quando siamo di fronte alla bellezza c’è sempre un ardore folle e uno smarrimento antico in cui la nostra anima si perde. Anche in questo caso il confine cade, il tempo disgrega la sua linea degli eventi e disperde i suoi personaggi, fino al punto in cui ciò che è stato non è più distinto da ciò che è o che sarà.
Lo sguardo accede a una visione in cui il tempo non scorre più in sola direzione, non è più imposto o rammendato, e in cui è la parola del poeta che “sposta l’equilibrio del mondo” e che assolve il senso stesso di ogni cosa, anche il senso dell’assenza, della disfatta e della perdita.

“Lascia che tutto ti accada”. È quello il momento in cui anche i sensi cedono e si abbandonano a una contemplazione che è pieno riscatto del proprio Io nella natura del se stessi originale.

Cosa legano le radici, cosa trattengono e cosa lasciano andare? La questione riguarda certamente la nostra esperienza e il tempo trascorso o smarrito nel viaggio, come per Ulisse che fa ritorno alla sua casa e in cui ogni stanza, ogni frammento di memoria diviene traccia di quello che è restato o di ciò che è andato sciolto: amori, figli, amici, la gioventù, l’eterno vagare dell’uomo per mare e nelle sue ombre.
I paesaggi non cambiano solo in superfice ma anche dentro di noi, nel sottosuolo delle nostre viscere. Quasi si perdessero tutti i punti di riferimento. Ci si sente soli, isolati, smarriti, come se d’un tratto si venisse scagliati in un mondo mai esistito o non più vivente, in un mondo che non è più il nostro e in cui viene da chiedersi se un uomo può davvero vivere senza punti cardinali a cui fissare le albe e i tramonti, le stelle e le radici.

Portando lo sguardo alle distanze – “bellezza e terrore” – vertici o abissi, l’unica risposta possibile ce la fornisce la poesia, ce la indicano i poeti e qualunque ciottolo antico o altra cosa viva nel mondo: la luce delle parole viene silenziosamente a guarirci dalla pena delle ferite.
Non dobbiamo mai tralasciare di ricercare e riconoscere le nostre radici, né mai rinunciare di seguire l’impronta del viaggio, perché solo così saremo sempre capaci di ritrovare la rotta per ritornare a Itaca, come anche sapremo riprendere nuovamente il remo per rimetterci ancora in viaggio.

Vincenzo Mirra

2 pensieri riguardo “Torna Ulisse, alle tue radici

  1. Buongiorno, ho letto con immensa emozione. Da sempre Ulisse, il suo errare lungo, per poi tornare mi ha fatto pensare sul destino dell’uomo. Credo profondamente nelle radici, nel ritorno… Però la conoscenza di ciò che ci circonda è importante, non importa la distanza, ma avere il coraggio di allontanarsi, per conoscersi nel profondo, maturare, per poi tornare. Grazie
    Antonella Duosi

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