Raymond Carver: ritrovare noi stessi nel racconto della vita degli altri

Uno spazio espositivo scomponibile, un letto, un televisore, un giradischi, una cassettiera, una scala, una porta, due comodini e due lampade di lettura, di lui, di lei. Una casa in cui si varca una soglia che porta in luoghi intimi e personali pur rimanendo all’esterno. Il personaggio del racconto Perché non ballate? di Raymond Carver, dispone tutti i mobili del salotto, della cucina, della camera da letto sul prato davanti alla sua casa. Passano di lì due ragazzi che si fermano incuriositi e incominciano a provare tutto senza permesso: il letto, il cuscino, il divano. Finiscono con l’ubriacarsi un po’, il ballare fino a perdere la connessione dalla realtà e scendere a compromessi con il padrone di casa per il prezzo.

Nel racconto dello scrittore americano, la messa a nudo dell’intimo viene descritta inizialmente in un modo che non sembra così minaccioso, tuttavia man mano che si va avanti si arriva a sentire una sensazione di disagio quasi deprimente. Un luogo – che è un luogo intimo che occupiamo con i nostri passi, con i nostri indumenti, i nostri resti – è messo in scena in maniera totale, aperta e senza difese; una messa in scena che ha bisogno dello sguardo dell’altro per essere approvata, valutata, etichettata, ammirata; un diario quotidiano personale che non rimane più approdo fisso e sicuro, ma identità assemblabile, riutilizzabile, giudicabile e commentabile da sconosciuti. Leggendo il racconto di Carver ci assale una sensazione di emozioni barcollanti: pian piano le nostre certezze vacillano davanti alle lenzuola violate, ai pavimenti segnati, ai cuscini consumati, a bicchieri toccati da altre bocche. Le bocche e i respiri e i corpi di sconosciuti; e questa inquietudine inconscia che si prova sembra trascinarci nella deriva dell’incomunicabilità. La ragazza nel raccontare l’accaduto ai suoi amici non riesce a non pensare che c’era dell’altro, lo sapeva, ma non riusciva a metterlo in parole.

Quando capiamo cos’è questo disagio che non si può ben esprimere ormai siamo giunti alla fine della pagina, rimanendo insoddisfatti davanti a quel silenzio lì dove vorremmo vedere un punto e virgola per continuare a conoscere il seguito. Perché la vicenda del protagonista di Carver è la storia di ciascuno di noi: troppo stanchi di raccontare a qualcuno di noi, delle trasferte, dei cibi preferiti, dei libri letti in spiaggia, preferiamo confessarlo a tutto il mondo postando milioni di fotografie, le più belle, le più simpatiche, le più divertenti pur di non parlare con nessuno; inglobati dalla comodità dello schermo, dalla mollezza

dei contenuti lucidati con i filtri, dalla inadeguatezza della fisicità, perché ormai dell’altro preferiamo sapere cosa ha visto piuttosto che cosa ha provato, scegliamo di controllare gli aggiornamenti dei social piuttosto che sentirne le sensazioni: una cortina di chiasso che racconta disperatamente la bellezza, la felicità, l’allegria per convincere tutto il mondo di averle trovate. Il gioco del mostrare tanti memorabili momenti vissuti in vacanza, non spiega l’elemento felice del meritato riposo in sé, piuttosto serve a mettere in moto un meccanismo di accumulazione istantanea del significare, dell’esistere qui e ora e di dover necessariamente catturare l’istante in una fotografia per esserlo davvero. Da New York a Parigi, da Istanbul a Lione, da Taormina ad Amsterdam, si ammirano i profili delle montagne, le correnti dei fiumi, lo skyline delle metropoli al tramonto, campi di grano in cui sarebbe bello affondare, sabbia finissima su cui sarebbe terapeutico camminare, rovine di castelli misteriosi in cui sarebbe affascinante perdersi. Il tutto fa da sfondo a sorrisi larghissimi che sono la mostrazione del presente indicativo. Sorrisi che hanno l’urgenza di essere narrati, abbracci che hanno bisogno di essere condivisi. Come se non ci portassimo sempre con noi quelle scatole pesanti ed ingombranti che descrivono la quotidianità. Ciò che accomuna il protagonista delle foto e il voyeurista è lo scrollarsi di dosso ogni responsabilità di raccontare uno, di chiedere e ascoltare l’altro, perché la risposta alla domanda – quasi obbligata alla fine delle vacanze – del doveseistatoecomèandata è tutta racchiusa lì, in quei sorrisi patinati, in quei momenti divertenti, irripetibili, i momenti che esigono un brindisi, quelle memorie conservate come forma di sopravvivenza, quelle pose su cui speriamo di avere una forma di controllo. Collezioni di frammenti di vita che rappresentano i protagonisti, quasi a sostituirli, restituendo una particolare sensazione di effimero. Perché tutto può essere un pretesto per ricominciare, ma nonostante tutte queste promesse di bellezza e amore, l’unica cosa che continua ostinatamente a ripresentarsi è la routine e la vetrina dei social diventa infatti un dispositivo per collezionare momenti che l’autore elegge a luogo del vivere quotidiano, perché la pagina piena somigli terribilmente a una sorta di vita potenzialmente piena. Tuttavia, c’è dell’altro, si sa, ma non si riesce a mettere in parole, perché scorrendo le vite degli altri la sensazione che si avverte, come quando leggiamo il racconto di Carver, è quella di entrare in una stanza vuota quando rimangono solo le spoglie delle persone.

Lara Carbonara

Un pensiero riguardo “Raymond Carver: ritrovare noi stessi nel racconto della vita degli altri

  1. Bella questa analisi. Il bombardamento di comunicazione effimera, oltre ad aver disabituato a distinguere ciò che è reale da ciò che è fiction, contribuisce a togliere tempo agli incontri reali e all’ascolto autentico… Mi occupo di comunicazione cyber e comportamento dei giovani sui social, e non riesco ora a immaginare come si possa intervenire seriamente su questo fronte: è un diventato un meccanismo sempre più veloce e difficile da orientare… Grazie per questo articolo!

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