Ana Maria Matute, la scrittrice degli ultimi


di Alex Marcolla

Un fresco mattino di primavera Ana smise di scrivere all’improvviso. Sul momento sembrò non farci molto caso. Alzandosi dal letto si era sentita più stanca di quando si era messa a dormire e una volta in piedi, Ana non aveva fatto nulla di diverso rispetto ai giorni precedenti. Eppure avvertiva un lieve formicolio degli arti che pareva rendere faticoso anche preparare la consueta tazza di tè per la colazione. Poi, seduta alla scrivania con gli occhi puntati sui fogli bianchi posti accanto a quelli fitti della sua scrittura minuta, si accorse che un sottile velo le era calato sugli occhi impedendole di mettere a fuoco ogni singola parola. Forse la stanchezza che l’aveva presa appena alzata, forse dell’altro che non riusciva a comprendere. Decise che quel giorno non avrebbe scritto. Il velo però non abbandonò Ana né il giorno dopo né quelli successivi e di punto in bianco si ritrovò come immobilizzata da un timore la cui origine le era del tutto ignota. Ana era una scrittrice dal talento riconosciuto ovunque, più volte il suo nome era stato menzionato tra quelli possibili per il premio Nobel. Ana era una donna dalla tempra indomabile e malgrado avesse patito tante sofferenze e visto infliggere tante crudeltà nel corso della sua vita, mai aveva tralasciato di coltivare la pietà. Ora si chiedeva cosa le stesse impedendo di fare ciò che amava di più, scrivere storie in grado di raccontare il mondo nel quale viveva. Si chiedeva cosa la stesse facendo scivolare un passo alla volta verso un isolamento senza scampo. Il giorno in cui Ana alzandosi per l’ennesima volta con fatica dal letto udì il tenue rumore della pioggia, la primavera che aveva dato il via a quel suo lento declino volgeva ormai al termine. A piccoli passi Ana si avvicinò alla finestra e un sorriso cominciò piano a farsi strada tra le sue labbra. La pioggerellina che con i suoi odori invitava alla nuova stagione la riportò fulminea a un ricordo sbiadito della sua infanzia. Per Ana fu un primo felice risveglio dopo mesi di inarrestabile oblio.

Da bambina Ana era stata timidissima. Cresciuta tra tanti fratelli in una famiglia benestante nella quale l’educazione si muoveva di pari passo con l’amore, Ana era avulsa a qualsiasi intemperanza. Capitava che il padre di Ana fosse obbligato a spostarsi di frequente per lavoro tra Barcellona e Madrid portando con sé la propria famiglia. Quando le circostanze non lo permettevano, la madre di Ana preferiva trascorrere le prolungate assenze da casa del marito in un piccolo paese della campagna spagnola. Ana e i suoi fratelli erano stati abituati a non fare alcuna differenza di classe e a mescolarsi nei giochi anche con quei bambini che non avevano avuto le loro stesse fortune. Sotto lo sguardo premuroso e attento della madre e della tata, i bambini ruzzolavano in mezzo ai prati dei dintorni insieme ai figli dei contadini e le lunghe giornate estive sembravano non avere mai una fine. Un giorno di fine agosto una violenta scarica di pioggia si abbatté sulla zona. La freschezza improvvisa accompagnava quel temporale annunciando il finire della stagione dei giochi all’aria aperta e l’ombra del ritorno a casa. La ripresa della scuola era alle porte. Ana ebbe un brusco motto di stizza e serrando i pugni con un fare capriccioso che non le apparteneva, maledì quell’acqua che cadeva incessante e che minacciava di porre un termine a quei giorni felici. Fu a quel punto che uno squarcio lacerò la cortina infantile che le impediva ancora di vedere il mondo intorno a lei. La tata le si avvicinò e soppesando ogni singola parola le fece capire che avrebbe dovuto ringraziare la pioggia ogni singolo giorno della sua vita, perché era alla pioggia che lei e i suoi fratelli dovevano ogni cosa, compresa la scuola in cui andavano e che ai bambini con i quali giocavano era preclusa. La ricchezza della famiglia di Ana risiedeva in una fabbrica di ombrelli di proprietà del padre. Quando Ana si rese conto della vacuità di quel suo comportamento, corse tra le braccia della tata sciogliendosi in lacrime. Avrebbe reso grazie alla pioggia per gli anni a venire, soprattutto avrebbe messo se stessa e le sue future parole come scrittrice al servizio di quei figli di contadini che allo studio non potevano accedere e il cui futuro si limitava al duro lavoro nei campi.

Osservando la pioggia cadere dalla finestra della sua camera da letto, Ana ritornava ancora alle parole di saggezza della tata e con quelle si ripresentavano immancabili ai suoi occhi le immagini delle atrocità subite da quei bambini pochi anni più tardi. Una guerra fratricida sarebbe presto scoppiata in Spagna, una lotta insensata tra due opposte visioni del mondo che si contendevano il primato del suolo iberico a suon di barbarie inaudite. Un minuto prima, Ana e i suoi fratelli giocavano con i bambini del villaggio stretti da fraterna amicizia. Ora invece le bombe cadevano dal cielo in continuazione e i massacri si susseguivano senza tregua lacerando intere famiglie e stillando un odio inconsulto fin nelle radici di quella terra macchiata di sangue. Gli allarmi antiaerei erano diventati la norma. Correre al riparo significava per Ana tenere viva la speranza dei suoi fratelli e di tutti coloro che si radunavano attorno a lei ascoltando le sue letture a voce alta. Fin da quando aveva tentato di proferire le prime parole, Ana aveva manifestato una forma di balbuzie sulla quale non riusciva ad avere il controllo. I libri nella grande casa non mancavano e da precoce lettrice la bambina si ritirava negli angoli meno frequentati dai familiari per immergersi nella pagine che prediligeva, quelle tenebrose e immaginifiche dei fratelli Grimm, di Perrault o di Andersen. Le piacevano le storie popolate di orchi e di fate, di mostri e giganti, di streghe e di gnomi. Senza rendersene pienamente conto, Ana sentiva che quegli universi magici esorcizzavano i timori che lei nutriva verso il mondo degli adulti. Al principio, quando cominciò a leggere quelle storie a voce alta, era sempre da sola, nascosta in camera sua o da qualche parte nel giardino che circondava la casa e che soltanto lei conosceva bene. Quando si accorse che le sue letture fatte quasi a perdifiato avevano messo a tacere la balbuzie, mossa da una gioia incontenibile Ana decise che le avrebbe proposte ai fratelli, ai genitori, alla tata. Ana desiderava che le parole di quegli scrittori da lei recitate fossero di aiuto alle persone che amava per domare le loro sofferenze e spalancare la porta alla gioia e all’amore per chi era meno fortunato. Quando la guerra si diffuse in tutto il paese, Ana capì che quelle letture avrebbero potuto aiutare chi le battaglie le subiva, gli innocenti che da sempre sono vittime dei furori omicidi di chi pretende di imporre le proprie regole di convivenza. Fu in quel preciso istante che Ana prese coscienza del potere salvifico della parola scritta. Fu allora che scelse quale sarebbe stata la sua strada. In un mondo popolato da mostri spietati, lei avrebbe scritto racconti per scansare lo sgomento e lo strazio che sempre inesorabili investivano i più deboli in questa vita.

Dopo la guerra, nel pieno di una dittatura feroce, Ana scrisse e pubblicò un libro a cadenza annuale, spaziando tra i generi e senza mai offrire visioni consolatorie. Troppa morte aveva visto con i suoi occhi per credere ancora nella redenzione di chi si macchiava di crimini orrendi. Le importava soltanto dei bambini e dei poveri. Delle donne, di chi veniva liquidato come diverso, degli ultimi. Le sole vittime sacrificali, da sempre. La pioggia aveva smesso di cadere e Ana non se n’era minimamente accorta. Gli occhi spalancati sul passato si destarono al tocco di un raggio di sole che timido annunciava un nuovo giorno. Quel viaggio nel tempo dal valore incalcolabile le aveva fatto tornare alla mente le ragioni per cui aveva cominciato a scrivere. Come, ripeteva sussurrando a se stessa, come ho potuto dimenticare da cosa tutto ha avuto inizio? E chiudendo gli occhi con il sorriso che aveva fatto capolino sulle sue labbra, sentendo anche le forze tornare, si diresse alla scrivania e ricominciò a scrivere.

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