La vergogna mi ha ridato una voce

di Valentina Falsetta

Noi ridevamo la risata delle ragazze rotte. 

Una pietra d’inciampo che ho trovato ne La cronologia dell’acqua di Lidia Yuknavitch. È buia la notte di San Giovanni, non si vede alcuna stella, niente luna, le nuvole passeggiano veloci fuori dalla mia finestra. Mi sono svegliata col cuore che accelerava per un incubo che ho già dimenticato, l’unico bagliore caldo e giallo viene dal vecchio lampione più avanti nel quartiere. La quercia è muta, immobile, la civetta inizia il suo canto. Per le lucciole è ancora presto, ma rincasando dopo cena la scarpa si è imbattuta in un rospo grassoccio e umido. Qualche macchina superstite sulla strada sfreccia di ritorno da una festa a cui non ho presenziato.

 Yuknavitch ci ha messo dieci anni di follia a pensare di scrivere della sua bambina nata morta, degli abusi, delle dipendenze. Infinito è il tempo che impiego a smettere di aprire un foglio bianco su Pages, su Word, sul taccuino, fissarlo, richiuderlo. Dannarmi, non seguire il prurito nelle mani. È una cosa seria fare una frase. So che verrà il giorno in cui vincerò la vergogna e tutto fluirà anche per questa storia come il corso di un fiume impetuoso. So che sarà il momento per scrivere pagine non enfatiche, ma giuste. Chi ci sta vicino non sa cosa si muove nella mente di un narratore o di un poeta. È una solitudine inscalfibile, mi sembra, una lontananza da tutti e una vicinanza che diventa commistione col corpo dell’altro.

La vergogna ti nasconde, ti fa scivolare via. La schiena è la vergogna. Le scapole alate che ti fanno somigliare a un pollo allo spiedo, sono la vergogna. Le maglie bianche che non puoi mettere senza che il simpatico della classe ti dica quanto sembri strana, contorcendo il viso come un gatto quando sbadiglia. Il tizio che puzza d’alcool, quarantenne frustrato da un’ex moglie andata a male, ti deve prendere le misure per fabbricare un busto ortopedico ma ti insulta, ti schernisce perché non stai abbastanza ferma, perché sei un microbo di nuove possibilità e tu non sorridi, non sorridi mai, perché cazzo non sorridi, bambina?  Il tizio che puzza di prepotenza dieci anni dopo.  Il corpo nudo misurato tastato, obbligato. Mi sono seduta in un angolo a mangiare panini al burro negli spogliatoi ricchi di firme e nasi all’insù e io ero bella ma di una bellezza atipica. Fuori contesto. Mi sono accasciata a terra in kermesse internazionali, con scarpe da duecento euro non mie, per ricordare a chi amo da dove provengo, narrargli cosa nascondo, provare a dare un motivo all’ira che di tanto in tanto scoppia e mi rende cattiva. Volevo dirgli Ti amo, io ti amo, ma non parlare al mio posto, ci ho messo una vita a imparare a farlo. A trarre piacere dal dire la mia in modo spudorato, a difendere il mio diritto di dire: io sono qui. Ho danzato su punte di gesso in tutù bianchi angelici. Ho sollevato le braccia eterea, posato davanti a macchine fotografiche, ho fatto gli esercizi di ginnastica posturale che ti fanno sentire un malato ai margini dell’adolescenza, in combinato disposto al corsetto che lascia lividi blu sotto le ascelle. Mi sono ustionata la pelle sulle vertebre allo schienale della sedia, al liceo, per via dell’essere sottopeso. Non ho mai trovato un paio di pantaloni che mi facessero sentire normale. 
Quindi, più di tutto, ho nuotato. Mi sono immersa. Ho cercato un equilibrio corporeo per correggere il cadere ovunque. In una piccola piscina clorata ai piedi della città. In una pozza di blu e umidità. Nell’acqua salata di una spiaggia straordinaria e deserta.

Quando una madre ha scostato con violenza la tenda azzurra della doccia, lasciandomi nuda davanti a tutti, in fondo era il preludio di un destino; quando mi ha gridato di non dover essere lì, in quel posto, al posto di sua figlia, la vergogna del corpo si è mescolata alla vergogna di essere senza voce. Di non sapermi proteggere.
I pensieri liquidi come l’acqua. L’odore del cloro che si posa come polvere su qualsiasi superficie.
Quando ho vinto la prima gara e una pazza, con occhi iniettati di sangue e ormoni, si è fermata nel mezzo di una vasca a urlarmi contro, la vergogna è stata non saper urlare più forte di lei. Perché ero brava, ero davvero brava, in qualunque cosa trovasse dimora in me. Mi accendo per ossessioni.

Ho saputo essere acqua: acqua dagli occhi per non parlare, per non saper spiegare, acqua poggiata sul tavolo della cucina nella quale, dalle quindici alle diciotto del pomeriggio, stavo seduta a riassumere il capitolo di un romanzo con la penna blu cancellabile, a guardare indefessa la grafia sul foglio, piccolo confortante mondo in cui nuotare. Dev’essere bella, questa cosa delle storie. Acqua che s’infiltra sotto le porte, invade le stanze, penetra le persiane, ruba le scene assorbe i dialoghi e le immagini, le trasporta con sé nella terra ed ecco, un seme.

Sto seduta nell’angolo del locale a bere Coca-Cola, ascolto la donna molto sola, siciliana, che si fa portare dal cameriere un’arancia, ne fa un’insalata; guardo il telefono dell’Assessore indagato che gli riflette sugli occhi donne nude e qualcuno lo apostrofa Dottore; non rispondo alle provocazioni del professore dell’Accademia che andando via mi accarezza la schiena, ma non lo dico, non lo dirò mai; rispondo che ho un fidanzato al vecchio giornalista che mi vuole offrire una bibita al bar; non dico niente quando mi segue per la strada un nano disgustoso tenendomi la bocca a un palmo di naso; quando sono stata strappata al silenzio dall’occhio del ciclone la violenza è stata troppa. Ma io non voglio scrivere un memoir. Voglio personaggi che vengano letti da quelli che come me non hanno posseduto l’incanto fonetico, che hanno una vergogna chiusa in gola.

Spesso, una voce nasce precoce per spirito di sopravvivenza. Non so perché smisi di nuotare, di ballare. So perché ho rischiato di morire facendo giravolte verso l’acqua del porto o perché ho inciso con un coltello il dito o perché me ne andavo in giro a perdermi facendo morire d’infarto i miei, so perché Yuknavitch racconta dei modi in cui è possibile sabotarsi, sono infiniti e si può essere creativi con sé stessi, davvero. Ma c’è di più e forse non è una verità accettabile. La curiosità come mezzo di contrasto alla finitudine. La curiosità come salvezza dall’abulia.
So perché non abbiamo mai dimenticato, perché scriviamo di corpi fallibili e follie fatte di isolamenti.

Quando Emily Rataijkowsky in My body racconta delle formiche che camminano in casa mentre lei giace sul letto incapace di alzarsi;
quando Yuknavitch si siede a urinare sul pavimento di un locale o quando si innamora di uno studente e viene licenziata;
quando Alda Merini dice di umiliazioni inflitte da ignoranti e di frustrazione dei rapporti;
questo è quello che mi dico: le donne danneggiate sono ancora intere in modi diversi, le donne danneggiate sono ancora intere in modi diversi. Come una preghiera.
È il paradosso della forza travolgente da esercitare arrendendosi alla verità; come Arturo Bandini nuotavamo fra le onde pensando alla carta o al racconto, cercavamo il modo di portare a compimento una storia. 

Un pensiero riguardo “La vergogna mi ha ridato una voce

Commenta