Nedzad Maksumic, ovvero la poesia è una roba serissima, quella di guerra è quasi sacra

Nedzad Maksumic è un poeta sopraffino.
Il disincanto e l’ironia che contraddistinguono i suoi versi sulla guerra lo rendono unico, a tratti spietato, a momenti lucidamente, beffardamente e consapevolmente cinico.
Nel proliferare pubblico di versi sulla o contro la guerra, in questo momento storico in cui ci preoccupiamo, e giustamente, per le vicende russo-ucraine, il fenomeno della tautologia da tastiera imperversa nelle raffiche di significanti sparate senza pietà nel cyberuniverso sovragovernato dai social. Resta da chiedersi, lecitamente, in quanti fra questi esperti di poesia abbiano mai dedicato un quinario piuttosto che un’ottava in rima incatenata al popolo siriano, a quello yemenita, al congolese, per dirne tre.
La poesia è una roba serissima, quella di guerra è quasi sacra.

Giuseppe Ungaretti più di tutti ci ha abituati al nonsenso della precarietà bellica attraverso la sua poesia. Siamo stati abituati bene, noi Italiani.
Conobbi l’opera Indicazioni Stradali Sparse per Terra preparando un intervento teatrale; era per la presentazione di un libro vincitore del premio Città di Ventimiglia, su input del libraio incaricato alla manifestazione. L’opera vincitrice aveva fra i suoi protagonisti un bosniaco reduce dalla guerra dei Balcani. Poteva essere un incipit più che opportuno per la performance. Solo in quel contesto poi ascoltai la versione musicale del poema, arrangiata dai CSI di Giovanni Lindo Ferretti, che usai quindi come naturale commento sonoro.
Ma, a dire il vero, vissi la realtà dei profughi balcanici in prima persona, durante un’esperienza lavorativa a Trieste nel 1999.
Si veniva dall’assedio di Sarajevo e si assisteva all’esodo dei profughi kosovari.
“La pioggia portava con sé la polvere dei deserti d’oltre mare. I vecchi dissero: ci sarà la guerra! Nessuno prestò credito alle loro parole.”
Credenze antiche, suggestioni zingaresche, saggezze ataviche, nuovi scetticismi e sempreverdi Cassandre per inascoltati, tristi presagi di sventura.
La petrosa Bosnia Erzegovina, i musulmani biondi con occhi verdi, un decalogo di regole da seguire espressi con la sublime potenza evocativa della retorica poetica. Dentro c’è tutto.
Come dimenticare Srebrenica e i suoi reflussi di pulizia etnica, un enclave dove venne consumata la tragica eliminazione dell’intero genere maschile sotto la colpevole indolenza delle missioni militari internazionali di peace-keeping?
Parole, che il vento porta e scolpisce nelle coscienze.
Lego ergo sum.
“Se il cadavere di quel giorno era un suo parente o comunque un vicino, non permettergli di avvicinarsi e di guardarlo.”
Cinismo e pragmatismo.
“Nel caso di corpi dilaniati, bisogna stabilire con precisione i pezzi che appartengono a ciascun corpo.”
Sì, si parla di morti ammazzati.
“In guerra nessuno è intelligente. Non devi credere alla verità di nessuno.”
La verità di qualcuno coincide sempre con la menzogna di un altro.
“Proteggi i tuoi ricordi, le fotografie, le prove scritte del fatto che sei esistito.”
I ricordi orali li spazza via il vento.
“Tenta di sopravvivere.”
Almeno, provaci.
“Non supplicare nessuno. Neanche se c’è di mezzo la vita. E’ una questione di buon gusto.”
Esiste ancora quella cosina chiamata orgoglio.
O era dignità?
“Non credere mai di essere il Signore della Verità. Nessuno lo è.”
E questo, di tutti i suoi precetti, consiglio fra i consigli, è quello più opportuno oggi, naufragando nel mare della divulgazione dozzinale, presuntuosa, pretestuosa.
La poesia di Nedzad Maksumic è un decalogo spietato della sopravvivenza, una guida ai valori principali della comunità, è una lotta combattuta con estrema praticità e con sorrisi taglienti, a volte sorprendentemente beffardi.
Una risata ci seppellirà, certo, ma a proposito di sepoltura, dobbiamo ricordare sempre che, secondo Maksumic,
“Se hai bisogno di una buca in cui ripararti, scavatela da solo.”

Davide Barella

(traduzione dei versi a cura di Igor Pellicciari, fonte: web)

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