Rinnegare se stessi per essere veramente se stessi. Il caso Anatole Broyard

Questa storia potrebbe cominciare il giorno in cui ho sentito per la prima volta il nome di Anatole Broyard. Non che ci fossero le file fuori dalle librerie, eppure venti anni fa l’uscita di un nuovo libro di Philip Roth gettava sempre un certo senso di attesa e un briciolo di premura – Come sarà? Come non sarà? Migliore o peggiore del precedente? – anche al di fuori dell’allora non strettissima cerchia di groupies rothiani di cui facevo parte. Il libro per il quale mi precipitai in libreria era The Human Stain e benché non sapessi ancora che sarebbe diventato il mio preferito tra quelli del Roth “ultima maniera”, di certo non potevo immaginare che mi avrebbe fatto scoprire l’esistenza di un personaggio dalle contraddizioni semplicemente magnetiche, capaci di solleticare in me riflessioni a non finire.

La trama di The Human Stain dovrebbe essere a questo punto nota ai più, tuttavia poiché essenziale a introdurre il vero protagonista di questa storia, forse occorre ricordarla qui a grandi linee: prossimo alla pensione, Coleman Silk – stimato accademico di un prestigioso college del New England – viene sottoposto a una massiccia caccia alle streghe a causa di una incomprensibile accusa di razzismo da parte di due suoi studenti. Allontanato dalla sua cattedra e con la reputazione in pezzi, confiderà le sue pene al celebre alter ego di Roth – lo scrittore Nathan Zuckerman – che arriverà a scoprire una verità tanto sconcertante quanto assurda: Silk è in realtà un afroamericano dalla pelle chiara che per ottenere fama e successo accademici si era fatto passare fin da giovane per bianco e aveva sposato una agiata ragazza ebrea, senza mai rivelare nulla a nessuno circa i propri antenati, nemmeno ai suoi quattro figli. Come si dice in questi casi, il libro destò il vasto plauso della critica e gli elogi – ben meritati, si intende – si sprecarono.

Di pari passo, la vicenda di Coleman Silk così come Roth l’aveva raccontata aprì una vivacissima polemica che coinvolse per lungo tempo testate prestigiose e siti internet, critici raffinati nonché lo stesso Roth e questo perché a detta di quelli che del libro avevano scritto un gran bene, Coleman Silk non poteva non essere ispirato alla figura di Anatole Broyard. Fu allora che sentii questo nome per la prima volta: si trattava di un autorevole critico americano morto dieci anni prima dell’uscita del libro di Roth e pressoché sconosciuto oltre i confini statunitensi. Solo dopo la sua scomparsa si venne a conoscenza del fatto che in realtà Broyard era un afroamericano di pelle chiara che aveva rinnegato le proprie radici facendosi passare per bianco in nome delle sue aspirazioni letterarie e diventando una leggendaria penna del New York Times.

Mentre ancora anni più tardi la mia curiosità si concentrava tutta su Broyard e i suoi due fantastici memoirs pubblicati postumi, i giornali nostrani sembravano altresì interessati alla diatriba che il caso aveva innescato tra Roth e Wikipedia. Quest’ultima, malgrado le ripetute smentite ufficiali dello scrittore, sulla pagina dedicata al romanzo di Roth aveva insistito con il segnalare Anatole Broyard come la principale fonte di ispirazione per Coleman Silk. A quel punto, dopo un fallito tentativo da parte dello scrittore di modificare la notizia direttamente su Wikipedia – tentativo respinto in quanto Roth fu giudicato dal sistema “fonte non attendibile”, con tutte le grasse risate che ne seguirono quando la notizia fu resa pubblica -, Philip Roth scrisse e pubblicò sul New Yorker l’ormai storica – sul sito della rivista americana potete ancora leggerla – “An Open Letter to Wikipedia”, nella quale negava una volta per tutte che Broyard fosse l’ispirazione per il suo Coleman Silk, affermando che alla base del libro c’era una infelice accusa di razzismo poi chiarita mossa contro un suo vecchio amico – il sociologo Melvin Tumin – e invitando Wikipedia a rettificare la pagina oggetto della controversia. Se ciò ha contribuito quasi subito a calmare le acque sulla vicenda nella stampa nostrana, lo stesso non è accaduto per quella americana. Letta la “Open Letter” di Roth, la figlia di Broyard – Bliss Broyard, che alla figura del padre ha dedicato una suggestiva biografia – è intervenuta rispondendo tramite Facebook allo scrittore di Newark. Pur ribadendo il rispetto per la libertà espressiva e le riflessioni di Roth, la Broyard ha affermato in maniera categorica che i dettagli sulla vita di Coleman Silk avrebbero potuto essere tranquillamente presi dai due libri autobiografici scritti da suo padre e dal dibattito che le rivelazioni sulla vera identità di Broyard scatenarono subito dopo la sua morte, dibattito peraltro ospitato anche su alcuni dei giornali per i quali Roth scriveva al tempo, New Yorker incluso. Soprattutto Bliss Broyard rimarcò in maniera definitiva che la verità su suo padre era nota nell’ambiente letterario e ricordò con pungente ironia a Roth l’assidua frequentazione e l’amicizia tra i due autori. Non essendovi stata alcuna risposta da parte di Roth, la questione scemò in breve tempo finendo con il diventare una di quelle storielle di contorno che i librai accorti impiegano per consigliare The Human Stain ai non iniziati. Chiuso questo lungo preambolo, è ora di raccontare quando e come questa storia è cominciata e chi ne è in realtà il solo e autentico protagonista: Anatole Broyard.

Esistono indizi di un primo Broyard in Louisiana già nel XVIII secolo e si tratterebbe di un colono francese, forse un lontano antenato della famiglia creola nera in cui Anatole nacque nel 1920. Secondo di tre figli – lui e la sorella maggiore dai marcati lineamenti europei, la più piccola destinata a sposare un leader dei diritti civili possedeva invece tratti africani -, Anatole Broyard cresce a New Orleans in una famiglia di falegnami costretta in seguito a emigrare a New York a causa della Grande depressione. Benché i Broyard vivessero in una Brooklyn operaia e multietnica, Anatole bambino

sperimentò presto tutta l’asprezza delle tensioni razziali subendo sia l’ostracismo dei bianchi che conoscevano le sue origini nere, sia quello dei neri che lo consideravano un bianco per via del colore della pelle. Fu in quegli anni che Broyard sviluppò un interesse per la letteratura e l’arte destinato a tramutarsi in passione divorante e primeggiando negli studi lo portò poco prima che gli Stati Uniti entrassero in guerra al Brooklyn College, primo Broyard a frequentare l’università in una famiglia in cui nessuno aveva terminato le scuole elementari. Quando si trattò di arruolarsi nell’esercito, con tutta probabilità Anatole già maturava le due scelte che segnarono la sua intera esistenza: sarebbe diventato uno scrittore e nessuno avrebbe scoperto le sue origini creole. Da bambino nella Brooklyn povera in cui era cresciuto, Anatole aveva osservato più volte suo padre farsi “passare” per bianco per trovare un ingaggio migliore come falegname, per questo non gli fu difficile fare lo stesso per entrare nell’esercito e frequentare la scuola ufficiali preclusa allora ai soldati afroamericani, fino a raggiungere il grado di capitano. Il punto di non ritorno era stato varcato, a guerra conclusa Broyard mantenne la sua identità di bianco e grazie a una borsa di studio per veterani si specializzò alla New School for Social Research di Manhattan. Il Greenwich Village del secondo dopoguerra era il luogo ideale per chi come Broyard aspirava alla completa libertà creativa conducendo una sfrenata vita bohémien. Sono gli anni vivacissimi raccontati in Kafka Was the Rage, il suo secondo memoir uscito postumo nel 1993. Sono anche gli anni delle prime lotte politiche per la conquista dei diritti civili dei neri, ma di tutto ciò pare non esservi traccia nelle sue pagine, al contrario delle sue smisurate ambizioni letterarie e delle movimentate liasons sentimentali che occupano larga parte dei ricordi contenuti nel libro. Accanto all’insegnamento universitario, si susseguirono le uscite di suoi racconti in rinomate antologie e su riviste illustri della cultura americana, per le quali di lì a poco Anatole Broyard avrebbe scritto diventando quel tipo di intellettuale le cui opinioni potevano condizionare senza vie di mezzo l’ascesa o la caduta di un aspirante scrittore. A partire dagli anni ’70 infatti, Anatole Broyard diventò critico di punta del New York Times, pubblicandovi una lunga serie di saggi che possedevano secondo i suoi editori il dono rarissimo di catturare l’attenzione di legioni di infatuati lettori per mezzo di una personalità seduttiva come poche se n’erano viste negli ambienti intellettuali newyorkesi. All’apice di una parabola tra le più eccentriche e singolari forse anche per la stessa realtà americana, la morte per cancro di Anatole Broyard arrivò del tutto inaspettata nel 1990. La diagnosi senza appello era stata pronunciata dal suo medico solo quattordici mesi prima, il tempo necessario per completare il libro sui suoi anni giovanili al Greenwich Village e per imbastire una irriverente resa dei conti con la propria fine in Intoxicated by My Illness, pubblicato anch’esso postumo nel 1992.

Sono trascorsi più di trent’anni dalla morte di Anatole Broyard e oggi che le questioni identitarie vengono poste con forza al centro del dibattito politico e letterario, potrebbe essere il momento di capire cosa resta del Broyard scrittore anche alla luce della querelle originata a suo tempo dalla verità sulla sua vita e dal rapporto che questa avrebbe intrecciato con la sua opera. Sei anni dopo la morte di Broyard, il saggista Henry Louis Gates, Jr. in un profilo dedicato allo scrittore che pure aveva conosciuto bene, lo rimproverò per aver scelto di nascondere le sue ascendenze afroamericane in un momento storico in cui sarebbe stato di cruciale importanza assumere un approccio identitario per contrastare il razzismo su cui si fondava l’American way of life. Altri seguirono Gates, Jr. nelle sue contestazioni, rilevando che nei lavori autobiografici non c’era traccia del “vero” Anatole Broyard: nella sua giovinezza in Kafka Was the Rage trovano spazio personaggi bizzarri e una sessualità libera che anticipa la rivoluzione dei costumi del decennio successivo, l’amore per la lettura che conduce Broyard a impiantare una libreria colma di rarità letterarie e l’esercizio di una libido fuori controllo per una protégé di Anais Nin. Altrettanto, in Intoxicated by My Illness si passa da un racconto quasi onirico sulla morte del padre a un profluvio di insolenti metafore letterarie che si concludono con un micidiale bilancio della malattia, attraverso il resoconto senza pudore dei suoi trattamenti. Entrambi questi libri sono l’espressione di una scrittura mercuriale che alterna immagini delicatissime a ritratti di disarmante precisione della giovinezza e della prossima morte di Anatole Broyard. Tuttavia in entrambi i libri non è affrontato in alcun modo quel passaggio decisivo che in un preciso frangente ha deciso il corso della vita dello scrittore. Secondo quanti sapevano la verità su di lui, Broyard avrebbe lavorato per anni alla stesura di un romanzo con l’intento di essere giudicato solo come scrittore e non come “scrittore di colore”. A dispetto di ciò, quel romanzo non fu mai pubblicato e a tutt’oggi non ve n’è traccia alcuna. Come scrisse Roth in The Human Stain, ciascuno di noi reca dentro di sé una macchia che lo qualifica e avvilisce qualunque tentativo di comprensione. Se intendiamo questa impronta indelebile che ci distingue gli uni dagli altri come la chiave di cui dispone il romanziere per aprire la porta della realtà, possiamo ritenere Anatole Broyard uno scrittore che ha disperso in modo vano il suo talento rinnegando se stesso? Avendo ammirato i suoi libri, non riesco a dare una risposta a questa domanda. Mi limito a scrivere in maniera assai scontata che il grande romanzo mancato di Broyard coincide con la sua paradossale biografia.

Alex Marcolla

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