Viaggio nel mondo invisibile delle immagini

Tra le immagini moderne e i graffiti del Paleolitico c’è una distanza solo apparente: tutti, in qualsiasi momento abbiamo bisogno di lasciare tracce.  Le immagini però sanno essere fenomeni complicati proprio perché sono da un lato elementi sovrastorici, dall’altro qualcosa di culturalmente situato. È per questo che a partire dagli anni Venti del secolo scorso diversi studiosi cominciano a parlare di “cultura ottica”, “cultura visuale” o “cultura della visione” per riferirsi alle trasformazioni epocali prodotte dalla fotografia e dal cinema, vere e proprie rivoluzioni in termini di nuovi rapporti tra visione e sapere concettuale. Il termine “cultura visiva” continua però a rimanere nella penna di diversi scrittori degli anni ’60 come Marshall McLuhan o in quella del grande storico dell’arte come Michael Baxandall in “Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento” (1971) e in quella di Svetlana Alpers in “Arte del descrivere: scienza e pittura nel Seicento olandese” (1999) i quali cominciano ad intendere la classica “storia dell’arte” in modo radicalmente diverso analizzando non più le forme tradizionali dell’arte, ma tutte le immagini, anche quelle non apprezzabili solo attraverso gli occhi. 

Tutto ebbe inizio col cinema muto
Vero e proprio scenario dal quale far emergere il contributo di molti studiosi, il cinema muto fu il luogo perfetto per celebrare l’arrivo di un’era fondata sul primato dell’immagine sulla parola, promuovendo una cultura fatta delle cosiddette “arti del tempo” in grado di registrare e trasferire sullo schermo tutta la visibilità possibile. Le nuovissime arti cinematografiche con la loro nuova mimica e gestualità andavano ben oltre le barriere sociali e nazionali e in questo modo stimolarono il pensiero di coloro che pensavano alla cultura visuale come pratica che da quel momento in poi avrebbe dovuto esaminare criticamente il processo del guardare.

Negli anni ‘40, il regista e teorico francese Jean Epstein presenta per la prima volta una riflessione filosofica della fotogenia intesa come l’essenza stessa del cinema. Lui all’inizio pensa che ad essere fotogenico sia ogni aspetto delle cose e degli esseri che aumenta di bellezza attraverso la riproduzione cinematografica, e poi precisa che, a suo avviso, la fotogenia appartiene solo a quelle cose, esseri e fenomeni che sono in movimento. Unica qualità in grado di preservare l’uomo dalla morte. Per l’altro teorico francese Luois Delluc (nato anche lui alla fine dell’Ottocento e morto nel ‘24) un paesaggio è fotogenico di per sé, mentre per Epstein ogni cosa diventa fotogenico solo se il cinema ne cattura lo stato d’animo. Nel periodo successivo al cinema sonoro André Bazin distinguerà i registi in due categorie: quelli che credono nell’immagine e quelli che credono nella realtà. Ancora in questi primi sperimenti cinematografici si sviluppa il concetto di Transfert cine-fotografico che permette allo spettatore di identificarsi con ciò che vede al cinema. Fenomeno che si realizza solo e soltanto quando c’è bellezza fotogenica. Ne consegue che più il cinema o la fotografia corrispondono alla realtà, più lo spettatore sarà sedotto da ciò che osserva, mentre per chi si mostrava in foto o sullo schermo si cominciò a pensare che fosse addirittura preservato dalla morte! Attori che vivono e muoiono continuamente sono plasticamente il corrispettivo di quelle immagini sovrastoriche tanto desiderate!

La cultura visuale oggi
Forse è proprio l’esigenza di preservarsi dalla morte che oggi esiste l’algoritmo del modernissimo Art Transfert sezione specifica di Google Arts & Culture nella quale troviamo una fotocamera con un’interfaccia semplice che ci permette di scegliere lo stile col quale trasformare la fotografia della nonna o del nostro salotto nello stile di van Gogh, Frida Kahlo, Andy Warhol, Jean-Michel Basquiat, Claude Monet e molti altri. Ciò che è singolare è che la quantità di immagini della vita contemporanea ha attirato la

nostra attenzione sul nostro modo di vedere e ci ha detto che la questione “cultura visuale” anche se difficile è senz’altro meritevole di una comprensione più profonda. Nicholas Mirzoeff e poi Hans Belting sono alcuni dei nomi che ancora oggi discutono della progressione del movimento, anche se entrambi rappresentano posizioni abbastanza diverse su come e perché questa disciplina dovrebbe essere praticata e cosa, in definitiva, dovrebbe fare. Con questi due nomi siamo arrivati alla fine del secolo XX, momento nel quale nasce una nuova “scienza” la Visual culture studies o Bildwissenschaft (“scienza” o “teoria dell’immagine”) che si occupa non più solo di cinema ma di un campo vastissimo e transdisciplinare basato su ogni tipo di immagine. Dotandosi di strumenti scientifici, all’interno di prestigiose università inglesi e tedesche, questi nuovi storici dell’arte all’inizio degli anni ’90 cominciano ad occuparsi di iconosfera: ovvero di quella sfera visuale di cui siamo perennemente circondati, costituita dall’insieme delle immagini che circolano in un determinato contesto culturale e dalle tecnologie con cui esse vengono prodotte e trasmesse fino agli usi sociali che se ne fanno.

Ora, tutti noi sappiamo cosa è accaduto alle immagini con l’avvento di Internet. Sappiamo che non solo possiamo riprodurre, diffondere, archiviare, ma anche manipolare e condividere un numero vertiginoso di immagini. Questo flusso iconico incessante ha diffuso immagini prima sconosciute e di forte impatto anche politico e sociale acuendo il nesso tra le forme di rappresentazione visiva del potere e la visibilità della disciplina. Parliamo di sorveglianza e controllo ereditando il pensiero accademico del secolo scorso che ci aveva preparato il terreno con le idee sul voyeurismo, sulla sorveglianza appunto e sullo sguardo panottico. Tutti concetti facilmente applicabili alla riflessione sulla società emersa negli anni del digitale. Riflessioni nuovissime che si nutrono delle diramazioni più ampie e naturali degli studi sulle immagini come quelle dei Feminist studies che sin dagli anni ’70 si occupano della visione sessualmente orientata e di ideologia patriarcale come fenomeno che codifica orientamenti e fantasie erotiche. Nel 1978, il Women’s Studies Group del CCCS, formò un gruppo di ricercatrici femministe e cominciò a raccogliere i saggi poi confluiti negli anni Ottanta nel femminismo postmodernista e queer di Donna Haraway di cui ancora si parla moltissimo.

A questa immensa banca dati di studi sulle immagini si associano i cosiddetti Postcolonial studies, che vogliono mostrare la natura culturalmente, socialmente e politicamente determinata dalle rappresentazioni del mondo occidentale. Immagini dei Paesi colonizzati dalle stesse nazioni europee dove un ruolo fondamentale è giocato dagli stereotipi sull’esotismo, primitivismo o sensualità. Dal punto di vista del semplice osservatore, fruitore d’arte o pubblico generico, la questione diventa davvero molto interessante. Andar per mostre, o guardare le immagini nel web è molto più di una semplice esperienza estetica. Significa compiere un’operazione altamente intellettuale che lungi dall’essere un gioco mentale, produce conseguenze e comincia ad interferire profondamente nel nostro sistema di valori e in ciò che consideriamo valido e degno.

In un mondo pieno di foto, collages, copie che convivono accanto agli originali, ritocchi, trasformazioni dell’esistente in pose sempre più artificiose e memi altamente pervasivi siamo chiamati ad un impegno del tutto inedito. Guardare una mostra o swippare un’immagine fotografica ci chiama in causa, al punto da imporci di esplicitare quei valori, imponendoci in molti casi di essere consapevoli del loro fascino.

Matilde Puleo

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