“Noi siamo dei privilegiati e abbiamo la responsabilità di portare alla gente riflessione, conforto, allegria”. Intervista a Paolo Rossi

di Subhaga Gaetano Failla

Ho incontrato Paolo Rossi a Follonica, nei primi due giorni di marzo. L’attore è giunto in questa cittadina costiera della provincia di Grosseto in occasione della proiezione, presso il Piccolo Cineclub Tirreno, del film Acqua e anice di Corrado Ceron. Nel film Paolo Rossi è Gimmi, un vecchio amico di Olimpia, il personaggio interpretato da Stefania Sandrelli. Il giorno dopo l’attore ha portato in scena, nel Teatro Fonderia Leopolda di Follonica, lo spettacolo Scorrettissimo me. Per un futuro, immenso repertorio. Poco prima dello spettacolo, ha incontrato il pubblico, com’era già avvenuto per la presentazione del film. Questa intervista si è svolta in una quieta serata di  “primavera del mare”, una primavera anticipata di un mese secondo la tradizione marinara toscana.

Hai prima parlato di questo ultimo spettacolo che andrà in scena tra poco:  Scorrettissimo me.  Per un futuro, immenso repertorio. Sembra, da quello che dicevi, uno spettacolo a canovaccio.  Quando parlavi della tua prima esperienza con le marionette, mi è venuto in mente il fatto che possa essere rimasto per te un imprinting di quella commedia dell’arte, di quel canovaccio che c’è negli spettacoli di marionette. È così?
Non proprio. Nel senso che addirittura in alcuni di questi spettacoli di marionette, siccome gli attori spesso se ne andavano perché erano spettacoli precari, per molti di ripiego, noi in realtà recitavamo in playback con un nastro registrato all’inverso. Cioè c’erano delle voci di attori e noi articolavamo.  Questa esperienza mi è servita soprattutto quando sono andato a recitare in Cina. Avevo dietro la tenda un cinese che parlava l’italiano e praticamente ero abbastanza abile ad andare in playback in diretta in senso inverso. Cioè io conoscevo più o meno i passaggi e parlavo il cinese, addirittura il mandarino, che è una lingua alta.

“Scorrettissimo” richiama il suo opposto: correttezza. Che cos’è per te  censura?
Allora, per prima cosa i titoli di questo spettacolo. Quello che vale è: Per un futuro, immenso repertorio. Cioè, andando a senso inverso, il sottotitolo è il vero titolo dello spettacolo.  Perché, come cambia lo spettacolo e cambiano gli umori e le situazioni nel mondo e nel paese, noi cambiamo anche il titolo. Questo spettacolo ha avuto già sei titoli diversi, pur essendo diverso ogni sera uno dall’altro, ha cambiato anche i titoli. E quello che rimane, che è il vero titolo alla fine, è Per un futuro,  immenso repertorio.
Quello che penso della censura è che è una cosa che esiste anche quando non c’è, perché poi c’è in agguato l’autocensura, sempre. È una questione che, come dicevo prima, va  aggirata. Non mi sono mai lamentato. Io ho subito molte censure televisive, di vario tipo, ma non ho mai fatto la vittima perché a chi mi veniva vicino e diceva: “Madonna, oh, questa roba!”, ho detto: “Guarda domani in biglietteria, e poi mi sai dire a chi si ritorce contro questa censura”.  E poi ti dà lo spunto per metterli alla berlina. Facciamo un esempio. Mi censurano Il Pericle di Tucidide e la figura l’han fatta loro, perché io andavo in onda la domenica pomeriggio e non volevo trasgredire a tutti i costi, volevo fare un pezzo che avesse un senso. Era di Tucidite, parlava di Pericle, si studia a scuola. E loro l’han censurato. Quindi si è rigirata completamente contro di loro che han fatto la figura, perché non abbiamo a che fare con la censura, per dire, né fascista né stalinista, che comunque con la loro censura davano in realtà un valore all’arte, da lati opposti. Questi no. E questi sono anche più ignoranti. Per cui la figura l’han fatta loro, scambiando Tucidide per un autore di cabaret…

Mi ricordo gli anni drammatici dei colonnelli in Grecia, quando la Grecia censurava sé  stessa. Quando venivano rappresentati i drammi classici spesso c’era la polizia nel pubblico.
Sì, certo. Era così.

A proposito dei tuoi esordi. Ieri parlavamo dell’esordio con Histoire du soldat, con Dario Fo. Giusto un tuo ricordo o uno degli insegnamenti che ti ha dato il lavorare con Dario Fo.
A Dario Fo potevi solo rubare perché non aveva, a mio avviso per quel che era la mia storia, un talento pedagogico. Potevi solo rubare e lui era generoso in questo, nel senso che si lasciava tranquillamente derubare. Però il rubare in teatro è fondamentale, è il modo in cui apprendi il mestiere.

Prima parlavi di Milano. Grotowski, la Comuna Baires, il teatro dell’Elfo dove eri tu, il Living Theatre, quali  evocazioni ti danno? Parliamo degli anni Settanta ovviamente e del teatro comunitario.
Io gli anni Settanta li ho presi per la coda. Più fondamentali per me sono stati  gli anni Ottanta, devo dire, dove comunque c’erano degli strascichi in tutti i sensi degli anni Settanta. Io ho fatto anche un laboratorio, lungo, con il Living Theatre, non con Grotowski.

C’era sempre Julian Beck e Judith Malina?  
No, erano loro allievi. Però vidi i loro spettacoli e c’erano dei laboratori con uno dei loro migliori attori. Erano anni dove c’era una grande spinta creativa e una grande connessione, come si diceva oggi, fra le arti.

Questa connessione… Ti ho sentito nominare, sempre a proposito di quegli anni,  la definizione “anni di piombo” e poi quella di “anni di rame”, di connessione…
È una frase di Erri De Luca…

Sì, è una frase di Erri De Luca, del suo libro… E… senza battute… (non mi trattengo dal ridere)  Se tu dovessi dare una definizione degli anni odierni…
Io lo dicevo in un vecchio spettacolo… (parla adesso come in una cantilena, che diventa a tratti un farfuglio musicale)  Gli anni Settanta… furono anni duri, duri anni di merda…

Ecco… (rido)
… gli anni Ottanta, la Milano da bere… furono anni di merda, gli anni Novanta anni stramerda, primo ventennio di questo secolo, di merda… Ora anche la merda sta prendendo le distanze da noi.

Okay (mie risate) … Se dovessi paragonare il tuo stile di attore a quello di un pittore e a quello di un musicista, che nomi faresti?  
Be’, non avrei fatto questo nome magari qualche anno fa. Adesso però posso dire, se è un figurativo, un pittore: Pollock. E se fosse un musicista…  Io ascolto molto jazz, perché sono stato anche definito… Uno dei complimenti più belli lavorando spesso con i musicisti è stato, perché mi sarebbe piaciuto imparare a suonare, “sei un vero jazzista”. Mi piace molto questa cosa, per cui ti direi dei nomi, ma non sono un intenditore.  Mi piace Thelonious Monk perché smonta i pezzi, gli standard e a me piace smontare.

Ieri abbiamo visto insieme Acqua e anice. Per me era un film malinconico, tu l’hai definito un film agrodolce. Il tuo personaggio, Gimmi, è l’amico della protagonista, incarnata da Stefania Sandrelli.  Che colore daresti al film e che colore al tuo personaggio?
Non lo so… Un blu…

Un blu a che cosa, al film o al personaggio?
Anche al personaggio. Perché io non credo molto, come si è detto prima, a questo processo mentale che porta al personaggio. Credo che, vivendo poi oggi in una società dello spettacolo dove tutti tendono a essere personaggi, recitare un ruolo… Io preferisco calarmi in una situazione, lasciare che la situazione si trasformi. Quindi ti devi intonare a quel colore. Cosa sta vicino al blu? Ognuno decida quello che gli sta meglio, vicino al blu.  

A proposito di persona, personaggio, maschera. Alcuni affermano che l’attore sia più vicino alla consapevolezza di sé stesso, perché entra ed esce da innumerevoli personaggi, e prima o poi  tende ad accorgersi che anche lui nella vita quotidiana è una maschera, un personaggio. Ha più possibilità di autoconsapevolezza. Come la vedi?
Io la vedo che tutte le teorie sull’arte recitativa sono saltate nel momento in cui, ultimamente, ha preso veramente piede la società dello spettacolo. Quindi l’attore si ritrova in mezzo a gente che recita meglio di lui, e che è dentro ai personaggi molto meglio di lui. Quindi, come io cerco di dire in questo spettacolo, deve trovare un’altra dimensione per reggere questo mondo parallelo, che sia declinata in pellicola o in video o sul palcoscenico dal vivo.

Ma reggere sé stesso, la propria maschera?
Be’!  Noi facciamo un lavoro privilegiato, eh, noi giochiamo! Io la prima volta che l’ho capito sul palco che poteva… che potevo funzionare, il primo pensiero che ho avuto scendendo dal palcoscenico è stato: “Forse ho trovato il modo di non lavorare”. Noi siamo dei privilegiati e abbiamo quindi la responsabilità di portare riflessione, conforto, allegria alla gente.

Ma per te stesso, la maschera quotidiana o una delle tante maschere quotidiane?
Ah, se tu vedi lo spettacolo di stasera noi come siamo in camerino saliamo sul palco. Non c’è nessuna differenza, proprio per il discorso che ti facevo. Recitano tutti meglio di noi, noi non recitiamo più. Facciamo delle azioni che magari non faremo nella vita, ma azioni. Poi starà ad altri definirle.

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